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protesto-assegniIl protesto è l’accertamento, da parte di un Pubblico ufficiale, del mancato pagamento di un titolo di credito, ad esempio un assegno.

La levata del protesto viene normalmente richiesta dalla Banca che, al momento dell’incasso dell’assegno, rilevi un’anomalia, ad esempio che sul conto corrente di riferimento non vi è la provvista sufficiente per effettuare il pagamento dell’assegno.

Ma prima di attivare la procedura che porta alla levata del protesto, ed alla successiva iscrizione dello stesso nel Registro informatico dei protesti, la Banca è tenuta ad avvisare il cliente?

Questa è la questione che ha dovuto esaminare e risolvere il Tribunale di Cassino.

Nel caso sottoposto al Giudice, il cliente, che aveva emesso l’assegno poi protestato, chiedeva al Tribunale l’immediato ordine di cancellazione del protesto elevato appunto per mancanza di provvista.

La suddetta richiesta veniva fondata sul fatto che la Banca avrebbe levato il protesto senza contattare il cliente per avvisarlo che, a causa della ricezione di un atto di pignoramento notificato da un creditore, non avrebbe provveduto a pagare gli assegni emessi dal cliente.

E’ onere del cliente assicurare la permanenza della provvista necessaria per l’incasso

Il Giudice, esaminati gli atti, ha rilevato che è onere del cliente assicurare la permanenza della provvista necessaria per l’incasso.

Nel caso in esame, inoltre, rileva che la notifica del pignoramento è successiva alla notifica dell’atto di precetto, ricevuto da tempo dal cliente/debitore.

Quest’ultimo quindi, nonostante confidasse di raggiungere un accordo transattivo con il creditore, era a conoscenza del debito e del rischio di essere soggetto ad esecuzione.

Con l’ordinanza del 15.02.2017, pertanto, il Tribunale di Cassino ha affermato che la Banca ha mantenuto un comportamento legittimo.

La stessa, infatti, al ricevimento del pignoramento non poteva far altro che azzerare la provvista in giacenza sul conto corrente.

E di conseguenza, come per legge, ha dovuto procedere tempestivamente a far elevare il protesto, senza che le incombesse alcun onere di preavvertire il cliente.

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Aggiudicatario inadempienteChi è l’ aggiudicatario?

L’ aggiudicatario è il soggetto che partecipa alla vendita all’asta di un bene, ad esempio di un immobile, e si aggiudica il bene stesso.

Con l’aggiudicazione, l’ aggiudicatario si assume l’impegno del versamento del prezzo o, meglio, del saldo del prezzo.

Infatti, ogni offerta presentata in occasione di una vendita all’asta, deve essere accompagnata dal versamento di una cauzione, pari all’importo indicato nel bando di gara (solitamente, l’importo è in percentuale rispetto alla base d’asta) e versata secondo le modalità pure previste nel bando.

Se chi partecipa all’asta non diviene aggiudicatario, ottiene l’immediata restituzione della cauzione.

In caso di aggiudicazione, invece, la cauzione viene trattenuta a titolo di acconto e l’ aggiudicatario deve provvedere al versamento del saldo entro il termine e con le modalità espressamente indicate nel bando di gara.

Ma se l’ aggiudicatario non paga il saldo o paga in ritardo?

Il Giudice deve dichiarare la decadenza dell’ aggiudicatario, che perde le somme versate a titolo di cauzione.

Tali somme vengono accantonate nella procedura esecutiva per la soddisfazione dei creditori ed il pagamento delle spese di procedura.

Il Giudice dispone quindi il prosieguo della vendita.

Il pericolo per l’aggiudicatario inadempiente, che ha già perso la cauzione versata, è di dover provvedere al pagamento di ulteriori somme.

L’aggiudicatario non solo perde la cauzione, ma può essere obbligato anche al pagamento di ulteriori somme

La legge, infatti, prevede che se il prezzo che si ricava dalle nuove vendite all’asta, sommato alla cauzione confiscata, risulta inferiore al prezzo dell’incanto precedente, che l’ aggiudicatario inadempiente avrebbe dovuto corrispondere, lo stesso è tenuto personalmente al pagamento della differenza.

Il provvedimento del Giudice che obbliga l’ aggiudicatario inadempiente al pagamento della differenza, costituisce titolo esecutivo a vantaggio dei creditori che, all’esito della procedura, partecipano alla distribuzione delle somme recuperate con la procedura esecutiva.

In caso di mancato pagamento spontaneo da parte dell’ aggiudicatario inadempiente, pertanto, i creditori potranno agire nei suoi confronti per ottenere il pagamento.

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car accident oof cars of toy in a banknotes backgroundIn cosa consiste il risarcimento del danno patrimoniale? Quando è dovuto?

Tutti sanno che a seguito di un infortunio o di un sinistro stradale, la persona danneggiata ha diritto al risarcimento del danno.

Ma quale danno può essere risarcito e come si calcola il risarcimento?

E’ vero che i ricchi hanno diritto ad un risarcimento più elevato?

Il risarcimento del danno patrimoniale spetta anche a chi ha un lavoro dipendente?

Queste domande che spesso mi sono state rivolte, denotano una certa confusione sulla composizione del risarcimento del danno.

Facciamo quindi un po’ di chiarezza.

Il danno risarcibile può essere un DANNO PATRIMONIALE o un DANNO NON PATRIMONIALE.

In questo post ci dedicheremo solo al Risarcimento del Danno Patrimoniale e vi rimando già ora al mio prossimo post del 18.04.2017 per una spiegazione dettagliata delle voci che compongono il Danno Non Patrimoniale ed il suo risarcimento.

Per rispondere subito ad una delle tante domande che mi sono state formulate e che ho riportato in precedenza, è facilmente intuibile che il risarcimento del danno patrimoniale potrà essere tanto più elevato quanto più elevato è il reddito del soggetto danneggiato che viene a mancare a causa dell’infortunio.

Ma procediamo con ordine.

Il risarcimento del danno patrimoniale ha la funzione di riparare al danno economico sotto diversi profili: il danno emergente, il lucro cessante e il danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa specifica.

Il danno emergente.

Se l’infortunio è conseguenza di un sinistro stradale, il danneggiato dovrà riparare o sostituire la propria autovettura ed il relativo costo costituisce una voce del danno patrimoniale subito, che va a comporre il cd.”danno emergente“.

Soprattutto quando l’infortunio è grave, il danneggiato è spesso costretto all’acquisto o al noleggio di carrozzina, stampelle, attrezzature o altri supporti medicali, sarà poi sottoposto a terapie mediche o a fisioterapia per agevolarne la guarigione, gravandosi, in ogni caso del relativo costo.

Anche tali spese, come tutte le spese mediche sostenute dal danneggiato dovranno essere oggetto del risarcimento del danno, poiché costituiscono una voce, cosiddetta, del danno patrimoniale subito in conseguenza dell’infortunio.

Il lucro cessante.

Se poi a seguito dell’infortunio, il danneggiato è costretto ad una lunga degenza, non potrà, ovviamente, produrre reddito.

Qui però si deve fare una distinzione, rispondendo, in tal modo ad una delle domande iniziali.

Se l’infortunato è un dipendente, infatti, il danno patrimoniale che subirà – che in questo caso è detto “lucro cessante” – ed il conseguente risarcimento del danno cui avrà diritto, in certi casi sarà relativamente ridotto ed in altri addirittura inesistente, considerato che il datore di lavoro sarà tenuto a pagargli comunque lo stipendio.

Se, al contrario, l’infortunato è un libero professionista, un artigiano o un imprenditore, la cosa cambia.

Ed in questo caso, tanto più è grave l’infortunio subito, tanto più elevato sarà, probabilmente, il danno patrimoniale che ne deriverà ed il conseguente risarcimento del danno.

E’ infatti evidente che un libero professionista che guadagna solo con il suo lavoro, ove non possa lavorare, perderà il proprio reddito o lo vedrà ridotto e di tale lucro cessante dovrà essere adeguatamente risarcito.

Tuttavia, paradossalmente, potrebbe anche accadere che un imprenditore abbia un’azienda tanto strutturata e ben organizzata da non subire alcun danno in conseguenza della sua assenza e che quindi non possa poi vantare alcun diritto al risarcimento del danno da lucro cessante.

La prova dell’effettivo danno patrimoniale subito dovrà quindi essere infatti fornita dal danneggiato, che dovrà ,quindi, conservare tutti i documenti di spesa ma anche dimostrare, documenti alla mano, l’eventuale “lucro cessante” subito, al fine di ottenerne il risarcimento.

Il danno da riduzione o da perdita della capacità lavorativa specifica.

Soprattutto quando l’infortunio è tanto serio da compromettere la capacità di reddito futura del danneggiato, tuttavia, vi è un’altra voce risarcibile del danno patrimoniale, ossia il danno conseguente alla cd. “riduzione (o perdita) della capacità lavorativa specifica“.

Tale danno, detto anche danno da incapacità produttiva permanente, secondo la più recente giurisprudenza, non è la conseguenza automatica della riduzione o della perdita della capacità lavorativa specifica che viene diagnosticata dal medico legale nel corso della sua valutazione, ma dovrà essere comunque dimostrato, anche solo per presunzioni, da chi ne chiede il risarcimento.

Il calcolo di quest’ultima voce di danno, effettuato convenzionalmente con l’utilizzo di parametri legati all’aspettativa di vita del soggetto danneggiato, oltre che alla professionalità ed al reddito dallo stesso percepito sino al momento dell’infortunio, è piuttosto complesso ed è spesso oggetto delle maggiori contestazioni da parte delle compagnie assicurative tenute al risarcimento.

Quest’ultima voce del risarcimento del danno patrimoniale è evidentemente strettamente connessa al danno non patrimoniale subito dal danneggiato, del quale parleremo nel prossimo articolo.

Proprio la complessità degli aspetti giuridici coinvolti nella valutazione del risarcimento del danno patrimoniale, ma ancor più del danno non patrimoniale, suggeriscono comunque che il danneggiato si faccia assistere, sin dalle prime trattative da un avvocato esperto nel risarcimento del danno, soprattutto se il danno subito è grave.

 

 

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Cosa significa e in cosa consiste l’obbligo di repechage?

obbligo-di-repechageIl repechage è un obbligo imposto al datore di lavoro che intende procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In particolare, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ossia un licenziamento determinato da ragioni di carattere produttivo o organizzativo, come ad esempio una riorganizzazione aziendale, è necessario che il datore di lavoro verifichi di non essere in grado di riassorbire il lavoratore che sta per licenziare nella struttura aziendale.

L’obbligo di repechage è quindi la verifica che non sussista la possibilità di ricollocare il lavoratore ad altre mansioni all’interno dell’azienda.

In caso di contenzioso è il datore di lavoro che ha l’onere di provare di aver verificato l’impossibilità del repechage.

Si tratta di un onere che va assolto anche in riferimento a mansioni di lavoro inferiori, se rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e compatibili con l’assetto organizzativo aziendale.

Questo è quanto chiarito in un caso di applicazione del repechage affrontato in una recente sentenza della Corte di Cassazione.

In particolare, l’azienda comunicava ad un proprio dipendente il licenziamento per soppressione del posto di lavoro.

Il lavoratore impugnava il licenziamento, contestando che l’azienda avrebbe avuto la possibilità di reimpiegarlo in altro posto di lavoro con mansioni equivalenti o inferiori.

Veniva, quindi, avviato un contenzioso arrivato fino alla Corte di Cassazione.

I Giudici, decidendo il caso, hanno affermato un principio, oggetto di molti dibattiti in giurisprudenza, ossia che il datore di lavoro è tenuto a prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego in mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento e a fornire la relativa prova in giudizio.

Invero, la Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro che procede ad un licenziamento per motivo oggettivo ha l’onere di dimostrare in giudizio che al momento del licenziamento non solo non vi era alcuna posizione in cui poter ricollocare il lavoratore per lo svolgimento di mansioni equivalenti, ma deve anche dimostrare di aver offerto al lavoratore la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori (seppur rientranti nel suo bagaglio professionale) e di non aver ottenuto il consenso di quest’ultimo.

I Giudici quindi hanno dato ragione al lavoratore, non risultando assolto l’obbligo di repechage con riguardo alla possibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori ed hanno dichiarato illegittimo il licenziamento (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-12-2016, n. 26467).

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Parliamo del rapporto tra assenze ingiustificate del lavoratore e licenziamento disciplinare.

assenze ingiustificateLa valutazione della sanzione disciplinare da adottare a fronte delle assenze ingiustificate del lavoratore va effettuata dal datore di lavoro, tra l’altro, tenendo conto delle particolarità del caso concreto e del principio della proporzionalità tra la sanzione del licenziamento e l’infrazione commessa.

Per agevolare la valutazione è opportuno per il datore di lavoro consultare previamente il CCNL applicato al rapporto di lavoro.

Spesso, infatti, i contratti collettivi disciplinano espressamente la materia dal punto di vista disciplinare.

Ad esempio il CCNL Logistica, Trasporto Merci e Spedizione, prevede nella sezione dedicata ai provvedimenti disciplinari che il licenziamento disciplinare possa essere adottato nel caso di assenza ingiustificata del lavoratore per almeno 4 giorni consecutivi salvo i casi di forza maggiore.

Già quindi il CCNL può essere utile per fornire dei parametri per la valutazione della proporzionalità della sanzione disciplinare, salvo il fatto che comunque occorre sempre tenere conto delle particolarità del caso concreto.

Il Giudice, infatti, nonostante il CCNL possa prevedere per una determinata infrazione la sanzione del  licenziamento, non è vincolato a tale previsione e procede comunque ad una valutazione dell’adeguatezza della sanzione nel caso specifico.

Anche una recentissima sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato proprio il tema del licenziamento per assenze ingiustificate.

In particolare, l’azienda contestava alla propria lavoratrice l’assenza ingiustificata dal lavoro. Nel caso concreto, altre assenze ingiustificate dal lavoro erano già state oggetto di due precedenti sanzioni disciplinari conservative e nonostante ciò la lavoratrice si assentava nuovamente dal lavoro senza giustificazione.

Quest’ultimo procedimento disciplinare si concludeva con un licenziamento comunicato dall’azienda alla lavoratrice.

La lavoratrice, ritenendo ingiusto il provvedimento, ha impugnato il licenziamento, portando il caso fino alla Corte di Cassazione.

I Giudici della Suprema Corte hanno anzitutto preso le mosse dalla disciplina del CCNL applicabile al rapporto.

è quindi consigliabile consultare il CCNL che regola il rapporto di lavoro, verificando se prevede disposizioni particolari circa l’assenza del lavoratore e la comunicazione della stessa.

I Giudici, valutando il caso concreto, hanno quindi ritenuto la legittimità del licenziamento, vista la disciplina posta dal CCNL, considerate le precedenti reiterate assenze ingiustificate già sanzionate ed hanno ritenuto sussistente la proporzionalità della sanzione espulsiva, risultando l’atteggiamento non collaborativo tenuto dalla lavoratrice idoneo a pregiudicare l’affidamento del datore di lavoro sull’esatto adempimento delle prestazioni future, facendo venir meno il vincolo di fiducia nel rapporto di lavoro (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 01-02-2017, n. 2630).

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Marchio di fatto: è possibile utilizzare un marchio non registrato e ottenere tutela contro chi deposita successivamente un marchio identico o simile?

contestazione disciplinareIl marchio è un segno distintivo finalizzato ad individuare prodotti e/o servizi di una specifica impresa.

Ogni marchio può essere registrato.

La registrazione, tuttavia, non è condizione di validità del marchio, il quale può esistere anche in assenza della stessa, configurando il cd. “marchio di fatto”, essendo possibile utilizzare un marchio non registrato, oppure registrarlo in un momento successivo rispetto all’inizio dell’attività imprenditoriale.

Il diritto ad utilizzare un marchio sorge con il semplice utilizzo dello stesso da parte dell’imprenditore; nello specifico, il valore dello marchio è strettamente legato alla sua notorietà presso il consumatore come segno distintivo e all’ambito territoriale in cui lo stesso è riconosciuto.

Ovviamente, chi utilizza un marchio di fatto è esposto al rischio che, nel frattempo, altro soggetto registri un marchio uguale e/o simile per un prodotto e/o servizio uguale o simile.

In tali casi, la tutela giuridica che l’ordinamento offre al titolare del marchio di fatto dipende dalla sua estensione territoriale.

Se il marchio è noto solo localmente, il titolare del marchio di fatto non può impedire ad altri di utilizzare e/o registrare un marchio identico o simile, potendo esclusivamente proseguire l’utilizzo dello stesso nel medesimo ambito territoriale in cui lo utilizzava prima della registrazione altrui.

Diverso il caso in cui un marchio di fatto sia diffuso a livello nazionale: il titolare dello stesso potrà adire l’Autorità giudiziaria per chiedere l’accertamento della nullità del marchio identico o simile successivamente registrato da terzi per prodotti /o servizi identici o affini.

La giurisprudenza ha evidenziato che, nella realtà attuale, il fenomeno pubblicitario e la crescente mobilità dei consumatori restringono notevolmente i casi di notorietà puramente locale, in quanto rendono agevole e “normale” che un prodotto contraddistinto da un certo marchio, se pur prevalentemente (o anche esclusivamente) commercializzato in una determinata realtà locale, sia tuttavia noto anche al di fuori di essa.

La notorietà locale pare, quindi, doversi individuare nei casi in cui il marchio contraddistingua beni o servizi che, per loro natura, difficilmente possono essere conosciuti al di fuori di un certo ambito locale.

La tutela del marchio di fatto va ricondotta alle norme concernenti la concorrenza sleale in termini di confusione tra i consumatori circa la provenienza di un determinato prodotto e/o servizio.

Si tenga presente, in ogni caso, che se i consumatori – nonostante l’identità del segno – sono in grado di individuare correttamente la provenienza dei prodotti (recanti lo stesso segno) da due imprenditori diversi, deve escludersi il rischio di confusione che le norme sulla concorrenza sleale mirano a scongiurare; ne consegue, per l’effetto, l’assenza di qualsivoglia tutela in capo al titolare del marchio di fatto.

Sei un imprenditore e pensi che altri stiano utilizzando indebitamente il tuo marchio di fatto? Contatta uno dei nostri professionisti e verifica la Tua situazione.

 

 

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La tempestività della contestazione disciplinare è un requisito necessario per la validità del procedimento disciplinare e quindi della sanzione applicata.

tempestivita-contestazione-disciplinareAnzitutto, la regola generale è:

la contestazione dell’infrazione disciplinare deve avvenire immediatamente e tempestivamente.

Tale regola è finalizzata a garantire la tutela del diritto di difesa del lavoratore. Ciò per evitare che trascorra troppo tempo e il lavoratore non sia nelle condizioni di ricordarsi i fatti e giustificarsi.

Alcuni CCNL prevedono dei termini precisi entro i quali l’azienda è tenuta a comunicare la contestazione disciplinare.

Ad esempio, il CCNL Logistica, Trasporto Merci e Spedizione prevede che la contestazione disciplinare deve essere inviata al lavoratore “tassativamente” entro 20 giorni dalla data in cui l’azienda è venuta a conoscenza del fatto contestato.

Quindi, l’azienda deve anzitutto verificare se il CCNL applicato prevede termini da rispettare per comunicare la contestazione disciplinare.

In tal caso, i termini indicati dal CCNL vanno rispettati.

Se il CCNL nulla dispone, vale la regola generale: l’azienda deve contestare le infrazioni tempestivamente, non appena ne ha conoscenza.

La giurisprudenza è intervenuta in più occasioni su quest’ultimo punto, precisando che il requisito della tempestività della contestazione disciplinare va interpretato in senso relativo, tenendo conto delle particolarità del caso concreto alla luce dei principi di buona fede e correttezza nel rapporto di lavoro, in particolare, quando l’accertamento del comportamento del lavoratore richiede del tempo oppure quando la complessità della struttura aziendale comporta l’esigenza di un maggior tempo per la comunicazione della contestazione.

Un recente caso trattato dalla giurisprudenza conferma tale orientamento.

La questione riguarda un datore di lavoro che ad aprile 2015 ha comunicato al lavoratore una contestazione disciplinare per un fatto accaduto oltre un mese prima. In particolare, in data 23 e 28 febbraio 2015, dopo aver ottenuto due permessi per assistenza a persona invalida (L. 104/92), il lavoratore si era assentato dal lavoro, senza però svolgere alcuna prestazione di assistenza, ma altra attività personale. Ne seguiva il licenziamento del lavoratore.

Il lavoratore impugnava il licenziamento eccependo, tra l’altro, la tardività della contestazione, perché comunicata ad oltre un mese dai fatti.

Il datore di lavoro giustificava il tempo trascorso tra i fatti contestati e la comunicazione della contestazione disciplinare, in ragione del tempo necessario per effettuare gli accertamenti da parte dell’agenzia investigativa che aveva incaricato. Inoltre, essendo in corso controlli anche su altri lavoratori, l’azienda non poteva vanificarli comunicando una contestazione ad un lavoratore in modo anticipato rispetto alla conclusione dei controlli su tutti gli altri.

Il Giudice, valutando il caso concreto, ha ritenuto ragionevole il tempo trascorso in ragione degli accertamenti effettuati, dando ragione all’azienda. (Trib. Genova Sez. lavoro, Sent., 17-05-2016)

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Il datore di lavoro può modificare i fatti oggetto di contestazione disciplinare al momento dell’applicazione della sanzione?

contestazione disciplinareLa questione è stata affrontata in una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. Civ. 22127/2016).

Un lavoratore si assentava dal lavoro comunicando che non sarebbe rientrato a causa di maltrattamenti subiti sul posto di lavoro.

A tale lettera seguiva l’assenza per due giorni.

L’azienda rispondeva con una contestazione disciplinare, in cui contestava l’assenza da considerarsi ingiustificata invitando il lavoratore a riprendere il lavoro.

Nella lettera di giustificazioni il lavoratore ribadiva che sarebbe rientrato al lavoro solo se fossero cessati i maltrattamenti.

Il datore di lavoro comunicava la sanzione del licenziamento “perdurando ad oggi la sua ingiustificata assenza”.

Il lavoratore impugnava il licenziamento, contestando la violazione del principio dell’immutabilità della contestazione. Il lavoratore lamentava che la contestazione riguardava 2 giorni di assenza mentre il licenziamento era riferito anche alle assenze successive.

Il caso riguarda l’esame di un requisito fondamentale per la validità della contestazione disciplinare: l’immutabilità dei fatti della contestazione.

In forza di tale principio i fatti oggetto della sanzione disciplinare non possono essere diversi da quelli della contestazione.

I fatti oggetto della contestazione disciplinare devono coincidere con quelli oggetto della sanzione disciplinare.

Lo scopo di tale requisito è tutelare il diritto di difesa del lavoratore, che va messo nella condizione di difendersi sugli addebiti contestati.

I Giudici hanno individuato l’oggetto della contestazione disciplinare nell’assenza ingiustificata ed hanno valorizzato le particolarità del caso concreto, in cui il lavoratore nelle giustificazioni ha confermato l’assenza, dichiarando persino l’intenzione di volerla proseguire.

I Giudici hanno ritenuto legittimo il licenziamento, in quanto intimato in relazione ad un addebito (l’assenza ingiustificata) rispetto al quale non vi era violazione del principio di immutabilità della contestazione poiché il lavoratore era stato messo in condizione di discolparsi.

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In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che avrebbe esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza ove tempestivamente informato delle anomalie del feto da parte dei medici della struttura sanitaria.

OspedaleLa prova può essere fornita anche mediante presunzioni, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della madre e anche le eventuali precedenti esternazioni di quest’ultima circa la preferenza all’ipotesi abortiva.

Di contro, grava sul medico la prova contraria, ovvero che la donna non avrebbe abortito per qualsivoglia ragione personale.

I fatti: una coppia di coniugi agiva in giudizio contro un noto ospedale capitolino, deducendo la responsabilità della struttura sanitaria per il mancato accertamento e l’omessa informazione delle gravi malformazioni della nascitura (poroencefalia) che, di fatto, aveva impedito alla madre di interrompere la gravidanza e causato sia alla nascitura sia ai genitori gravi danni economici e morali.

La struttura ospedaliera contestava la tesi dei genitori e chiamava in causa le proprie assicurazioni nonchè i sanitari che avevano redatto i referti ecografici; questi, a propria volta, chiamavano in giudizio le proprie assicurazioni.

Il Tribunale e la Corte d’Appello di Roma davano ragione ai genitori.

Decisione confermata anche dalla Corte di Cassazione, la quale dava altresì atto della pacifica sussistenza del presupposto del grave pericolo per la salute fisica e/o psichica della donna, richiesto per l’interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno, e contestato dall’ospedale romano.

Alla struttura sanitaria non resta che pagare le spese di causa.

Casi come questi, purtroppo, sono sempre più frequenti e il tema della responsabilità medica sempre più attuale.

Se pensi di essere stato vittima di un errore medico puoi consultare un professionista del nostro studio per valutare la Tua situazione ed, eventualmente, chiedere il risarcimento dei danni alla struttura sanitaria e ai medici che Ti hanno curato.

 

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Una lavoratrice critica una decisione aziendale rivolgendo insulti al datore di lavoro. Quest’ultimo la licenzia per giusta causa. Il licenziamento è legittimo o no?

insulti al datore di lavoroAlla domanda è stata data risposta con una recente sentenza della Corte di Cassazione a cui è stato sottoposto questo caso.

Un datore di lavoro rivolge alla propria dipendente una richiesta di restituzione di una somma di € 50, che l’azienda ha rimborsato per errore due volte a titolo di spese di carburante.

A fronte di tale richiesta, la lavoratrice reagisce in malo modo, rivolgendo insulti al datore di lavoro ed utilizzando, davanti ad altro dipendente, parole offensive come: “sto barbone …”, “così si va a comprare un gelato sto …”.

Il datore di lavoro, ritenendo inaccettabile tale condotta e considerato che la lavoratrice aveva già ricevuto in passato sanzioni disciplinari per il comportamento tenuto, ha licenziato in tronco la lavoratrice.

Quest’ultima ritenendo ingiusto il licenziamento ha avviato un giudizio per ottenere la reintegra nel posto di lavoro.

La Corte di Cassazione, a cui è arrivato il caso, ha chiarito che il diritto del lavoratore di critica delle decisioni aziendali, che è un diritto garantito dalla Costituzione, incontra tuttavia i limiti della correttezza formale, imposti dall’esigenza di tutela della persona umana, anch’essa costituzionalmente garantita, sicché quando questi limiti sono travalicati, perché il lavoratore si esprime con insulti al datore di lavoro e con espressioni volgari, infamanti ed offensive, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento.

Va ovviamente valutata l’adeguatezza (“proporzionalità”) tra la gravità del comportamento contestato al lavoratore e la sanzione disciplinare applicata, che nel caso del licenziamento per giusta causa è la sanzione più grave perché pone fine al rapporto.

Nel caso in questione, i Giudici hanno valutato che il comportamento tenuto dalla lavoratrice fosse di gravità tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e quindi giustificare il licenziamento per giusta causa, considerata la valenza offensiva degli insulti rivolti, l’assenza di giustificazioni in capo alla lavoratrice a fronte ad una richiesta ragionevole e legittima da parte del datore di lavoro, la circostanza che le parole erano state pronunciare di fronte ad un collega estraneo alla vicenda, il fatto che già in passato la lavoratrice era stata sanzionata per i propri comportamenti e infine che il CCNL applicato dall’azienda prevedeva come ipotesi di giusta causa di licenziamento il tenere un comportamento contrario ai doveri civici.

Tutto ciò ha giustificato nella valutazione della Corte di Cassazione la sanzione tanto grave del licenziamento per giusta causa. Il datore di lavoro ha avuto quindi ragione e la legittimità del licenziamento è stata confermata (Cass. civ. Sez. lavoro, 21/03/2016, n. 5523).

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