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Liste clienti: trattasi di informazioni riservate dell’imprenditore.

La loro diffusione, pertanto, contro la volontà dell’imprenditore configura ipotesi di concorrenza sleale.

Nella pratica è un caso piuttosto ricorrente: alcuni dipendenti, dopo aver interrotto il rapporto lavorativo con un imprenditore, vengono assunti da un’altra impresa concorrente.

Gli ex dipendenti, dopo aver copiato diverse informazioni aziendali (tra cui le liste clienti), le mettono a disposizione di una nuova azienda concorrente.

In particolare, le nozio copiate riguardavano rubriche clienti, anagrafica, unitamente a informazioni relative a fatturati e preferenze.

Tale condotta integra, certamente, ipotesi di concorrenza sleale.

Ciò che rileva, in particolare, è l’atto di sottrazione contrario alla volontà del legittimo titolare.

Tale tipo di illecito, infatti, consente all’azienda concorrente di essere operativa sul mercato prima del tempo che le sarebbe stato necessario e con costi minori rispetto a quelli necessari per ottenere in via autonoma le stesse notizie.

Tutto ciò si traduce in un comportamento parassitario e illecito.

A tale illecito concorrono gli ex dipendenti, responsabili in solido con gli altri soggetti coinvolti.

L’illecito concorrenziale presuppone la qualifica dell’imprenditore commerciale e la sussistenza di un rapporto di concorrenza con l’impresa lesa.

Pertanto, la stessa medesima condotta non potrebbe essere considerata illecito concorrenziale se fosse posta in essere da un soggetto non imprenditore.

Per questo motivo, la responsabiltià degli ex dipendenti non imprenditori può essere riconosciuta solo quando costoro possono essere chiamati a titolo di concorso nell’atto di concorrenza sleale imputabile all’imprenditore nel cui interesse sono state sottratte le informazioni aziendali altrui.

Attenzione però: la tutela concorrenziale dei segreti aziendali non tutela le notizie riservate in quanto tali.

Tale tutela mira a inibire l’utilizzo di tali informazioni, ovvero quelle comode scorciatoie che consentono ai concorrenti di acquisire notizie di valore con risparmio di tempi e costi.

In ragione di quanto sopra, v’è ormai la tendenza dei Tribunali a rigettare quelle difese imperniate solo e soltanto nel dire che quelle informazioni avrebbero potuto essere conosciute dal competitor anche in altri modi.

Sul piano pratico, l’imprenditore che ritiene di aver subito una simile condotta di concorrenza sleale, potrà agire anche in via d’urgenza.

La tendenza dei Tribunali a concedere tutela già in via cautelare e senza il cotraddittorio con l’altra parte è, certamente, da condividere.

Ciò, infatti, consente maggiormente alle imprese di tutelare sin da subito uno dei loro più importanti asset aziendali.

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Liste clienti “semplici”: il Codice di proprietà industriale non offre alcuna tutela.

La loro sottrazione da parte di un ex dipendente, al pù, potrà costituire illecito concorrenziale.

Andiamo più nel dettaglio.

Il Codice di proprietà industriale tutela i cd. segreti commerciali, riferendosi potenzialmente a tutto ciò che può rientrare nella nozione di know how.

Il know how è rappresentato da informazioni dinatura tecnica o commerciale.

Tali informazioni devono essere relative ad un processo aziendale il cui valore è dato dal risparmio realizzato dall’imprenditore con la sua utilizzazione.

Le condizioni per la loro tutela sono 4:

1) devono essere soggette al legittimo controllo del detentore, sia esso l’ideatore delle stesse, sia esso colui che è autorizzato ad utilizzarle con il consenso del titolare;

2) devono essere segrete;

3) devono posserede un valore economico in quanto sia stato necessario anche uno sforzo economico per ottenerle;

4) devono essere sottoposte a misure di segregazione, con particolare riferimento ad una protezione fisica, assicurata da sistemi adeguati.

Le liste clienti “semplici” costituiscono un semplice elenco dei nominativi di clienti con i relativi indirizzi fisici e virtuali, prive di ulteriori informazioni qualificanti del singolo cliente.

Queste liste non costituiscono segreto aziendale, stante la mancanza di uno specifico valore economico nell’esercizio dell’attività imprenditoriale dei dati in questione.

Per tale ragione la sottrazione dell’elenco e il suo successivo utilizzo non autorizzato potrà, al più, costituire atto di concorrenza sleale non interferente con diritti di proprietà intellettuale.

L’ipotesi di concorrenza sleale è configurabile soltanto nel caso di utilizzo, da parte dell’ex dipendente,  di informazioni aziendali riservate o di svolgimento di attività concorrenziali e promozionali, con modalità tali da non potersi giustificare alla luce dei principi di correttezza professionale.

Avv. Lorenzo Coglitore

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Packaging, contraffazione e concorrenza sleale: interessante pronuncia delle Sezioni Specializzate del Tribunale di Milano del 2016 relativamente ad un bene di consumo comune, ovvero un tubetto di colla.

Packaging, contraffazione e concorrenza sleale

La società Alfa conveniva in giudizio la società Beta lamentando comportamenti di contraffazione dei propri diritti industriali e di concorrenza sleale.

In particolare, Alfa riferiva di essere venuta a conoscenza che un proprio cliente e distributore, la società Beta, importava e commercializzava una colla che si poneva in rapporto di concorrenza sleale e di contraffazione rispetto alla propria, il cui nome costituiva marchio registrato e il cui packaging era sempre rimasto invariato sin dal 1972, risultando quest’ultimo pedissequamente copiato dal prodotto commercializzato da Beta.

Alfa lamentava, pertanto, l’illecito di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c. ed, in particolare, quelle per uso di segno distintivo e confondibile altrui, per imitazione servile, appropriazione di pregi e concorrenza parassitaria, nonché contraffazione del marchio di forma di fatto, costituito dal packaging della propria colla.

Si costituiva in giudizio Beta, richiedendo il rigetto di tutte le domande formulate da parte attrice, sostenendo la non confondibilità dei due prodotti.

In particolare, Beta evidenziava sia la diversità dei formati con cui le colle venivano commercializzate, sia il diverso nome e marchio apposto sulla confezione cartonata e sul tubetto che contiene il prodotto. Per quanto concerneva la concorrenza sleale, Beta sosteneva l’assenza di concorrenza parassitaria in quanto questa sussiste solo in presenza di un’imitazione continua, sistematica e durevole.

La questione centrale affrontata dal Tribunale di Milano riguarda i diritti che Alfa può vantare sul packaging del proprio prodotto.

A parere del Tribunale milanese, Alfa non avrebbe fornito alcuna prova in merito agli elementi costitutivi della contraffazione del marchio di fatto concernente il packaging della propria colla, ovvero la diffusione sul mercato della stessa e la convinzione radicatasi presso il pubblico dell’immediata riconducibilità di un simile marchio di forma ad Alfa medesima. La tutela concernente il marchio di fatto veniva, pertanto, rigettata.

Miglior sorte aveva l’ulteriore tutela invocata, vale a dire quella della concorrenza sleale: dalle fotografie e dai campioni depositati da Alfa – reputa il Tribunale – risulta chiaramente che il packaging dei prodotti contestati integri una pedissequa imitazione di quelli di Alfa . La copiatura sarebbe talmente evidente anche in ragion del fatto che la confezione di Beta richiamava persino un riferimento normativo riportato in modo sbagliato già nella confezione del prodotto di Alfa. Anche i tubetti e i box trasparenti in plastica risultano nel complesso una pedissequa copiatura di quelli di Alfa, così da determinare un forte richiamo nella percezione del consumatore, soprattutto al confronto a distanza che deve essere assunto a base della valutazione di confondibilità.

Il Tribunale ritiene, pertanto, sussistere l’illecito di concorrenza sleale per imitazione servile e per appropriazione dei pregi dell’altrui prodotto. Non ritiene, invece, che sia rinvenibile la concorrenza sleale parassitaria, avendo gli atti imitativi riguardato un solo prodotto.

La società convenuta veniva condannata al risarcimento del danno nella misura di Euro 15.000,00. Tale voce risarcitoria comprende sia il mancato guadagno, parametrato sulla base degli utili conseguiti dalla società Beta (Euro 9.108,48), sia il danno all’immagine (Euro 4.554,24, ovvero il 50% dei mancati guadagni) sia, infine, la rivalutazione monetaria e interessi legali (Euro 1.337,28).

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Concorrenza sleale: produzione e commercio; capione di più.

Le imprese operanti sul mercato devono sempre attenersi a regole di correttezza e lealtà.

Nessuna può avvantaggiarsi nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l’adozione di metodi contrari all’etica delle relazioni commerciali.

Il presupposto soggettivo affinchè possa esserci concorrenza sleale è che i  soggetti coinvolti siano imprenditori e che sussista tra loro un rapporto di concorrenzialità.

Il rapporto di concorrenza si configura allorquando vi sia comunanza di clientela tra due o più imprenditori coinvolti, cioè quando i prodotti/servizi offerti dai due concorrenti siano destinati a soddisfare i medesimi bisogni.

Tipicamente, ciò si verifica in caso di prodotti o servizi identici oppure tra loro affini.

È importante sottolineare che la legge sanziona gli atti di concorrenza sleale a prescindere dal fatto che un pregiudizio si sia concretamente verificato: si sanziona la sola possibilità che un pregiudizio si verifichi.

Una circostanza molto importante e non da tutti conosciuta è la seguente.

Si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese che operino in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare sul mercato di tali beni.

Ovviamente, i prodotti e/o i servizi di tali soggetti devono riguardare la medesima categoria di consumatori.

Concorrenza sleale: produzione e commercio. Si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operano quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinata a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni.

Quale che sia l’anello della catena che porta il prodotto al consumatore, un’impresa viene a trovarsi in conflitto potenziale con le altre imprese posti su anelli diversi.

Questo proprio perchè è la clientela finale quella che determina il successo o meno dell’attività dell’imprenditore.

Ognuno di tali imprenditori, pertanto, è interessato a che gli altri rispettino le regole del gioco.

Solo a titolo esemplificativo, la Cassazione ha ritenuto sussistere ipotesi di concorrenza sleale nel caso di un’azienda produceva le cd. “gabbiette” utilizzate per rivestire e trattenere i tappi di vini frizzanti e di un’altra che costruiva i macchinari destinati alla produzione di tali “gabbiette”.

Cosa vuol dire questo? Che può esserci concorrenza sleale anche se un’impresa produce un determinato bene e altra impresa commercializza esclusivamente tale bene (senza produrlo).

Avv. Lorenzo Coglitore

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Le liste clienti: vediamo la prosecuzione dell’analisi inziata con la precedente pubblicazione.

In precedenza abbiamo visto come le liste clienti e, più in generale, i dati di carattere commerciale relativi ad elenchi clienti, fornitori, prezzi e fatturati costituiscono informazioni riservate dell’imprenditore.

La loro diffusione costituisce ipotesi di concorrenza sleale.

Non solo.

Il codice di proprietà industriale tutela anche i segreti commerciali.

Per segreti commerciali si intendono le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni:

a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore;

b) abbiano valore economico in quanto segrete;

c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Anche le liste clienti possono costituire segreti commerciali e, in quanto tali, godere di maggior tutela.

Molto importanti i requisiti del “valore economico delle notizie” e “le misure di segretezza”.

Quanto al primo, è evidente che le notizie relative alle liste clienti e a tutti gli altri dati collegati abbiano valore economico in quanto costituiscono il know how dell’azienda.

Il valore economico non deve essere inteso quale valore di mercato ion senso assoluto, bensì come valore economico per il legittimo titolare del segreto.

Lo stesso si concretizza nel vantaggio concorrenziale che consente di mantenere o aumentare quote di mercato.

Più interessante è approfondire la valutazione delle misure di sicurezza.

Sul punto non vi è unanimità di visioni.

Vi è un orientamento che ritiene che l’adozione di una semplice password non sia misura di segretezza idonea, necessitando di misure ulteriori che dimostrino una maggiore attenzione da parte del titolare del segreto.

Altro orientamento, invece, ritiene sufficiente anche un minimo di protezione (per l’appunto l’utilizzo di una password) per fornire quel carattere di segretezza all’informazione ed essere considerata “segreto aziendale”.

Rispetto alla tutela concessa dalla disciplina civilistica in materia di concorrenza sleale, vi sono alcune differenze.

Sul pianto soggettivo la tutela concorrenziale è più ristretta in quanto presuppone il rapporto concorrenziale tra l’autore dell’illecito e il soggetto leso.

Dal punto di vista della condotta, invece, la normativa sulla concorrenza consente di ritenere illecito anche il tentativo di sottrazione.

La disciplina dei segreti commerciali richiede che la condotta illecita si sia consumata.

Vi è un’altra importante differenza.

L’illecito descritto nel Codice di proprietà industriale dà luogo a responsabilità anche in assenza di qualifica di imprenditore e di rapporto concorrenziale.

Risolutivamente, in ciascuna fattispecie dovrà essere il professionista di volta in volta ad inviduare la normativa applicabile al caso di specie.

Avv. Lorenzo Coglitore

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Tutela penale del know how: di cosa si tratta?

Approfondiamo l’argomento.

Il termine know how  rappresenta l’intero patrimonio di conoscenze di un’impresa.

Si tratta di un patrimonio di conoscenze il cui valore economico è valutato in relazione all’ammontare degli investimenti richiesti per la sua acquisizione.

Il know how è fondamentale poichè si traduce nella capacità dell’impresa a restare sul mercato e a far fronte alla concorrenza dei competitors.

Dal punbto di vista civilistico, il know how è tutelato dal Codice di proprietà intellettuale, di recente modificato dal D.Lgs. n. 63 del 2018.

La tutela penale del know how, invece, è contenuta principalmente negli artt. 622 e 623 c.p.

Tali norme, rispettivamente, sanzionano la rivelazione o l’impiego di segreti professionali, oppure di segreti scientifici o industriali.

L’art. 622 c.p. punisce la rivelazione del segreto professionale e prevede che costituisca violazione della norma rendere noti fatti, circostanze, informazioni, notizie la cui diffusione potrebbe creare nocumento alla persona che si è rivolta al professionista (per esempio giornalista, medico, avvocato e/o commercialista).

Affinchè il reato si concretizzi è sufficiente che la violazione del segreto possa comportare un danno o un pregiudizio (morali, materiali, esistenziali) alla persona offesa.

L’art. 623 c.p.c. punisce chiunque, venuto a cognizione per ragioni del suo stato o ufficio, di notizie destinate a rimanere segrete, scoperte, invenzioni scientifiche o applicazioni industriali, le rivela o le impiega a proprio o altrui profitto.

Il bene giuridico tutelato in questa fattispecie incriminatrice è proprio quello attinente a scoperte scientifiche oppure a metodi di produzione, di fabbricazione etc.., che servono per raggiungere un certo risultato.

Un ultima precisazione: entrambe le fattispecie di reato sono punibili esclusivamente a querela di parte.

Tale previsione, senza dubbio, giustifica la ritrosia da parte della magistratura a svolgere indagini, spesso complesse e dispendiose, con il confreto rischio che qualsiasi risultato sia poi vanificato da accordi tra le parti.

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Sviamento di clientela: molti ne parlano, ma non tutti forse hanno capito esattamente di cosa si tratti.

Sempre più spesso ex dipendenti abbandonano la propria azienda per costituirne una nuova.

Fin qui tutto tutto bene.

Le cose cambiano, tuttavia, se gli ex dipendenti pongono in essere una condotta sleale, perpetrando uno sviamento di clientela dalla vecchia realtà a quella neo costituita.

Cerchiamo di capire, quindi, cosa si intrenda esattamente per “sviamento di clientela”.

Tale concetto identifica il risultato di varie condotte di concorrenza sleale.

Lo sviamento può essere posto in essere in vari modi: si pensi ad un collaboratore che si appropri dei dati dei clienti della sua società, di quelli relativi alle condizioni commerciali e/o al listino prezzi e, in generale, di tutta una serie di informazioni riservate, sfruttandole poi a vantaggio della nuova realtà che è andato a creare.

Sarebbe così facile indurre il cliente a seguirti, magari applicandogli condizioni leggermente più vantaggiose rispetto a quelle praticate dalla vecchia società.

Ma non è solo un ex collaboratore che può sviare la clientela di un imprenditore.

Tale condotta illecita può essere posta in essere anche da altro imprenditore, un concorrente, violando i doveri di correttezza professionale previsti dalla legge.

Per esempio, praticando prezzi eccessivamente bassi, oppure imitando il marchio dell’azienda o realizzando altri atti che generino confusione per quanto concerne i prodotti o l’attività dell’altra realtà aziendale.

Esistono dei rimedi? Certamente.

Anzitutto, è fondamentale precostituirsi le prove delle condotte illecite del soggetto colpevole di concorrenza sleale.

A questo proposito, a volte è consigliabile affidarsi ad un agenzia investigativa per richiedere opportune indagini a riguardo.

Le investigazioni sulla concorrenza sleale mirano dunque al reperimento di informazioni da utilizzare come elemento probatorio durante un’azione legale.

Quanto ai rimedi specifici, gli stessi sono i più vari e dipendono anche in ragione della reazione di controparte.

La cosa da fare immediatamente è scrivere una diffida che gli intimi di cessare subito il comportamento sleale.

In secondo luogo, è possibile agire in via giudiziale con una cd. azione inidibitoria, ottenendo un provvedimento che ordini la cessazione della condotta illecita da parte dell’ex dipendente.

Infine, un ulteriore rimedio esperibile consiste nell’agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno.

Ogni fattispecie è, comunque, un caso a sè.

Meglio che sia un professionista ad indicare la strategia che meglio si adatti al singolo caso di specie.

Avv. Lorenzo Coglitore

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Concorrenza sleale e storno di agenti di commercio: può costituire  concorrenza sleale quell’insieme di atti e iniziative che si sostanzino in una strategia diretta ad acquisire uno staff costituito da soggetti esperti del medesimo sistema di lavoro entro una zona determinata, svuotando l’organizzazione concorrente di sue specifiche possibilità operative mediante sottrazione del “modus operandi” dei propri dipendenti, delle conoscenze burocratiche e di mercato da essi acquisite.

Concorrenza sleale e storno di agenti

Merita un approfondimento una sentenza del Tribunale di Padova del 4 luglio 2016, che chiarisce i contorni di una potenziale condotta di concorrenza sleale volta ad acquisire gli agenti di un competitor.

Il soggetto A conveniva in giudizio la società B e le persone fisiche C e D allo scopo di far accertare l’illiceità della loro condotta e concretizzatasi nella appropriazione della clientela già servita da A nelle province di Venezia, Treviso, Padova e zone limitrofe (ove non operavano le convenute), attraverso un’attività sistematica e preordinata finalizzata allo storno illecito di gran parte degli agenti dell’attore A operanti nel predetto territorio.

Secondo quanto prospettato da A, la concorrenza sleale si sarebbe tradotta in una condotta finalizzata a privare la stessa degli agenti di maggior rilievo commerciale (convinti a recedere quasi in blocco dai rapporti di agenzia in corso in un ben definito e limitato lasso temporale) e ad accaparrarsi contemporaneamente la clientela della attrice A, così frustrando di fatto l’avviamento di quest’ultima, il tutto mediante la collaborazione dei soggetti C e D.

A insisteva per la condanna dei convenuti al risarcimento del danno nella misura di Euro 1.478.000,00.

Si costituivano B, C e D, i quali chiedendo il rigetto della domanda sulla base di difese pressoché analoghe: deducevano i convenuti che il passaggio degli agenti  riguardava un numero modesto di persone (solo 6), avuto riguardo sia alla pretesa unità territoriale (oltre 30 agenti), sia al complesso dei preposti su tutto il territorio nazionale su cui operava A (circa 650).

Secondo i resistenti, gli agenti ‘stornati’ non risultavano in possesso di capacità professionali distintive tali da rendere difficoltosa la loro sostituzione; il passaggio alla concorrente era avvenuto, peraltro, a seguito di una libera iniziativa degli agenti stessi, non essendo questi neppure vincolati da alcun patto di non concorrenza per il periodo successivo alla cessazione del rapporto con la A.

Il Tribunale di Padova evidenzia che la concorrenza illecita per mancanza di conformità ai principi della correttezza non può mai derivare dalla mera constatazione di un passaggio di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, nè dalla contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore del concorrente.

Tali attività, di per sè, sono pienamente legittime, essendo espressione dei principi della libera circolazione del lavoro e della libertà di iniziativa economica.

Occorre invece stabilire se la condotta censurata si caratterizzi per l’esistenza del cd. “animus nocendi”, cioè l’intento di danneggiare l’organizzazione e la struttura produttiva dell’imprenditore concorrente in spregio alle regole di correttezza professionale.

Alla luce di tale principio, il Tribunale rigetta la tesi di A.

In primis, il numero degli agenti oggetto di storno è risultato esiguo se si ha riguardo anche al solo ambito territoriale (Veneto) e all’insieme degli agenti che operano in questo distretto per conto di A: il rapporto tra gli agenti stornati e quelli preposti da B è di 1 a 5, da considerarsi modesto se si ha riguardo alla capacità di A di provvedere alla loro sostituzione in tempi relativamente brevi.

In secondo luogo, evidenzia il Tribunale, non può non tenersi in considerazione il fatto che nell’ambito della distribuzione nazionale di prodotti alimentari (di cui A è società leader) gli elementi che caratterizzano in positivo la strategia imprenditoriale in questo settore sono rappresentati dalla possibilità di praticare prezzi vantaggiosi, di disporre di una efficiente rete nazionale di logistica che assicuri un capillare e puntuale servizio di approvvigionamento in favore di una rete di clienti già consolidata o da fidelizzare.

Si tratta, quindi, di un insieme di elementi oggettivi che prescindono dalla figura e dall’attività dell’agente.

Ciò porta, quindi, a ritenere che una modesta diminuzione del numero di agenti in un determinato territorio causato da un’attività di storno di un’impresa concorrente non sia idonea ad arrecare un pregiudizio per l’organizzazione e la struttura produttiva dell’imprenditore che subisce lo storno stesso, non potendosi ritenere che nel caso di specie l’organizzazione di A risulti svuotata di sue specificità, nonché delle conoscenze burocratiche e di mercato acquisite dagli agenti.

A non può che pagare le spese di giudizio.

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Il procacciatore d’affari non ha le stesse limitazioni di un agente di commercio in tema di concorrenza sleale.

Procacciatore d'affari

Il procacciatore d’affari può avere anche più committenti.

Di conseguemza, alcuna attività illecita compie il procacciatore nel caso in cui si avvalga di diversi “mandanti” per soddisfare le esigenze dei propri clienti.

Questi i principi fondamentali in materia di concorrenza sleale e contratto di procacciamento d’affari.

Entriamo nel dettaglio della questione.

Il procacciatore d’affari e l’agente di commercio sono due figure ben distinte, pur presentando alcune affinità.

Non è sempre facile distinguere una figura rispetto all’altra, anche se la disciplina del procacciamento d’affari e del contratto di agenzia risulta differente sotto diversi aspetti.

Le figure di cui sopra sono legate da una certa affinità (si consideri che al procacciamento d’affari si applicano le medesime disposizione del contratto di agenzia, qualora compatibili) che rende, a volte, difficile comprendere la reale natura del rapporto nel caso concreto.

In linea generale, possiamo dire che con il contratto di agenzia l’agente si obbliga a promuovere la conclusione di contratti per conto della casa mandante in una determinata zona di mercato.

Il procacciatore d’affari, invece, non assume alcun obbligo in tal senso, avendo esclusivamente la facoltà di segnalare opportunità commerciali al preponente.

Il procacciatore d’affari, quindi, non ha vincoli di stabilità con il committente, potendo agire in totale autonomia.

Il rapporto, quindi, si caratterizza per l’occasionalità ed episodicità della prestazione, in contrasto con il contratto di agenzia che invece si contraddistingue per la stabilità e continuità del rapporto.

Ne consegue che il procacciatore d’affari non è tenuto all’obbligo di eslcusiva previsto per l’agente.

Il Codice Civile stabilisce che l’agente di commercio non può assumere l’incarico di trattare, nella stessa zona e per lo stesso ramo, gli affari di più imprese in concorrenza tra loro.

L’agente, pertanto, ha diritto che il preponente non nomini altri agenti nella stessa zona e in riferimento agli stessi affari da lui trattati.

A sua volta il preponente ha il diritto a che l’agente non promuova la conclusione di affari per imprenditori concorrenti.

Tale diritto di esclusiva, come anticipato, non può essere applicato al procacciatore d’affari.

Se sei un imprenditore e vuoi avvalerti di collaboratori esterni per la promozione dei Tuoi prodotti, potrai utilizzare un agente o una  rete di agenti, oppure uno o più procacciatori d’affari.

La scelta dipenderà dalla strategia commerciale e di marketing che vorrà porre in essere l’imprenditore.

Avv. Lorenzo Coglitore

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La valutazione economica dei brevetti è propedeutica alla stima del danno da contraffazione o da atti di concorrenza sleale.

Perchè è importante valutare, dal punto di vista economico, un brevetto? Cerchiamo di capire meglio.

La valutazione economica dei brevetti può avere diverse applicazioni pratiche, tra cui:

– la quantificazione del danno economico effettivo nel caso di azioni di contraffazione o di altri atti di concorrenza sleale (imitazione, dumping e/o concorrenza parassitaria);

– la stipula di contratti di licenza;

– la stima del valore contabile nelle valutazioni di bilancio;

– la valutazione del recesso del socio di società con brevetti;

– la liquidazione della società e la vendita del brevetto;

– la costituzione di pegno, ipoteca e usufrutto sui brevetti medesimi.

La concessione del brevetto consente al titolare di vietare a terzi di usare nell’attività economica invenzioni identiche o simili al brevetto.

Quanto alla valutazione economica dei brevetti, inoltre, l’analisi degli aspetti contabili relativi alle modalità di iscrizione in bilancio riveste una crescente importanza.

La valutazione del brevetto dovrebbe essere effettuata con un approccio interdisciplinare.

In particolare, vanno considerati i profili:

a) tecnologico (utilità e industrialità dell’invenzione);

b) giuridico (analisi dell’intensità del grado di protezione offerto dalla concessione del brevetto nelle diverse fattispecie possibili);

c) contabile (valutazione in bilancio del brevetto e delle spese di ricerca e sviluppo che lo sostengono);

d) tributario (impatto della fiscalità in caso di trasferimento del brevetto e/o tassazione delle royalties).

Quanto ai principali metodi per la stima del valore di mercato dei brevetti, questi possono essere ricordotti a due tipologie: i metodi empirici e i metodi analitici.

I metodi empirici si fondano sull’osservazione pratica dei prezzi di mercato dei beni immateriali sufficientemente simili e, in quanto tali, comparabili.

I metodi analitici hanno, invece, un fondamento scientifico più solido e si fondano su un approccio reddituale-finanziario, volto a stimare quanto vale oggi un asset (anche un brevetto) sulla base dei rendimenti futuri attesi ovvero attraverso una stima dei costi sostenuti o di riproduzione.

Per quanto riguarda le azioni di risarcimento del danno da contraffazione di un brevetto, vi sono alcuni principi che oramai possono dirsi consolidati.

Ciascuna parte che voglia agire in giudizio contro un competitor dovrebbe tenere in nota che:

1) il risarcimento del danno non è automatico, ma richiede una specifica prova. In pratica, spetta all’imprenditore il cui prodotto sia stato copiato dimostrare quali perdite commerciali abbia subìto. Diversamente, pur essendo comprovata la distorsione del mercato, nessun indennizzo potrà seguire.

2) La contraffazione di un brevetto può causare al titolare dello stesso danni consistenti nella perdita di profitti, perdita che a sua volta è dovuta alle mancate
vendite di prodotti incorporanti il componente brevettato da parte del suo titolare.

3) Tali mancate vendite possono imputarsi al contraffattore soltanto in quanto siano conseguenza immediata e diretta della condotta del contraffattore stesso.

4) Il danno da contraffazione di brevetto può essere quantificato facendo ricorso al criterio residuale della cosiddetta “royalty presunta”.

5) Per quantificare il danno patrimoniale da contraffazione di brevetto può correttamente presumersi che la contraffazione abbia provocato una riduzione delle vendite del titolare di brevetto in misura tendenzialmente pari al numero dei prodotti venduti dal contraffattore.

Sei un imprenditore e ritieni che il Tuo brevetto sia stato contraffatto? Fissa un appuntamento con uno dei nostro Avvocati.

Avv. Lorenzo Coglitore