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Pratiche commerciali scorrette: ad integrarle può rilevare ogni omissione informativa oppure qualsiasi enfatizzazione di elementi del prodotto offerto che induca in errore il consumatore.

pratiche commerciali scorretteLo afferma il Consiglio di Stato in un proprio provvedimento di aprile 2017.

La questione riguardava possibili pratiche commerciali scorrette utilizzate dalla San Benedetto, consistite nella diffusione – attraverso la stampa quotidiana e il proprio sito internet – di messaggi pubblicitari relativi alla propria acqua minerale naturale, con i quali veniva evidenziato lo sforzo che l’azienda aveva sostenuto nella riduzione delle emissioni dannose connesse alla produzione delle bottiglie in Pet.

In particolare, si discute in merito alle affermazioni rivolte ad enfatizzare la compatibilità ambientale della nuova linea di bottiglie utilizzate e, quindi, a caratterizzare in modo netto il prodotto rispetto a quelli concorrenti, in relazione a una caratteristica percepita dai consumatori come fondamentale nelle proprie scelte di acquisto.

Il messaggio a mezzo stampa era incentrato sulla valorizzazione delle caratteristiche di ecosostenibilità della bottiglia in plastica utilizzata per la commercializzazione dell’acqua minerale naturale. Tale bottiglia, denominata “eco friendly”, veniva pubblicizzata con la dicitura “- Plastica + Natura”.

Nei messaggi si specificava che dette bottiglie erano “prodotte con meno plastica, meno energia e più amore per l’ambiente”, risultato reso possibile dai “costanti investimenti in ricerca che dal 1983 hanno permesso di ridurre almeno del 30% la quantità di plastica impiegata e quindi di contenere il consumo di energia”.

Ancora, i messaggi a mezzo stampa specificavano che le ricerche effettuate dall’azienda nel corso degli ultimi 25 anni avevano permesso di risparmiare annualmente una quantità di energia equivalente alla CO2 fissata da 16.000 ettari di nuovo bosco impiantato, ovvero “…tanta energia da poter illuminare un paese di 10.000 abitanti per un anno intero”.

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato aveva richiesto alla San Benedetto informazioni e documentazione giustificativa idonee a comprovare le affermazioni contenute nei messaggi.

L’azienda per “comprovare” la correttezza dei vanti ecologici pubblicizzati forniva all’Authority due documenti elaborati da un proprio team interno

Non ricevendo documentazione idonea a provare il contenuto delle informazioni pubblicizzate da San Benedetto, l’Autorità accertava la scorrettezza dei messaggi e ne vietava la diffusione ulteriore, sanzionando pecuniariamente la società.

L’Antitrust ha sanzionato la Società Acqua Minerale San Benedetto per pratiche commerciali scorrette con una multa da Euro 70.000,00

Il Tar Lazio annullava il provvedimento sanzionatorio poiché l’Antitrust si sarebbe limitata ad affermare che l’elaborazione tecnica aziendale era insufficiente e inattendibile, sicché i vanti “prestazionali” e “ambientali” presenti nei messaggi in esame sarebbero apparsi, nei termini pubblicizzati, utilizzati in modo scorretto in base a quanto stabilito nel codice del consumo. Ciò a causa dell’omessa tempestiva produzione di dati, relazioni, studi, approfondimenti e certificazioni anche da parte di un ente terzo. Ciò, tuttavia, senza compiere alcun riscontro istruttorio tecnico autonomo, pur fattibile.

Seonco il Tar, non bastava affermare che la documentazione fornita dalla società non era accompagnata da approfondimenti scientifici e/o da certificazioni di enti terzi.

L’Antitrust proponeva – vittoriosamente – appello al Consiglio di Stato.

Il Consiglio di Stato evidenziava che la Direttiva 2005/29/CE, pur non contenendo disposizioni specifiche sulle asserzioni ambientali, prevede una base giuridica per assicurare che le aziende non presentino asserzioni ambientali in modo sleale per i consumatori.

Tale base giuridica può essere sintetizzata in due principi essenziali: a) le dichiarazioni ecologiche devono essere presentate in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile, al fine di assicurare che i consumatori non siano indotti in errore; b) tali dichiarazioni devono essere supportate da prove a sostegno delle rispettive dichiarazioni ed essere pronti a fornirle alle autorità di vigilanza competenti in modo comprensibile qualora la dichiarazione sia contestata.

Le informazioni “ambientali” contenute nella pubblicità devono essere vere e dimostrabili con documenti

Il Consiglio di Stato, considerando la documentazione consegnata da San Benedetto non probante i messaggi pubblicitari reclamizzati, accoglieva l’appello dell’Antitrust.

Il Giudice dell’appello evidenzia che costituisce onere informativo minimo imprescindibile, a carico delle aziende che intendono utilizzare “vanti” nelle proprie politiche di marketing, quello di presentarli immediatamente in modo chiaro, veritiero, accurato, non ambiguo né ingannevole. Tale onere comporta, pertanto, l’esigenza che il claim ambientale sia attendibile e verificabile e, quindi, non utilizzato in modo generico, indimostrabile, privo cioè di precisi riscontri scientifici e documentali, come per la San Benedetto.

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Avv. Lorenzo Coglitore

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Concorrenza sleale per denigrazione

Packaging, contraffazione e concorrenza sleale

Concorrenza sleale e rapporto di concorrenzialità

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Marchio debole e calzature sportive: Simod vince contro Puma.

marchio deboleRespinte integralmente le richieste del colosso tedesco relativamente alla contraffazione del proprio marchio e alla concorrenza sleale che avrebbe posto in essere la società Simod S.p.A..

All’ìnizio del 2000 il Tribunale di Padova si pronunciava in merito all’insussistenza della contraffazione del marchio di calzature sportive Puma da parte di Simod, sentenza che veniva successivamente confermata  dalla Corte d’Appello di Venezia e, nel marzo 2017, anche dalla Corte di Cassazione.

Il nodo della problematica sta nella differenza tra “marchio forte” e “marchio debole”.

Un marchio si definisce forte quando non presenta alcuna attinenza con il prodotto che contraddistingue. Esempio di scuola è quello riferito alla parola “mela”, che sarà poco distintiva se utilizzata come marchio per contraddistinguere i relativi frutti, ma costituirà certamente un marchio forte se utilizzata per contraddistinguere dei computer o degli smartphone.

Il marchio debole, invece, è un marchio che descrive la natura e/o la qualità di un prodotto, limitandosi ad evocare il prodotto o il servizio contraddistinto. Così, se volessimo registrare il marchio “super computer” per contraddistinguere un computer, il marchio risulterebbe piuttosto debole perchè privo di fantasia nonchè strettamente legato all’articolo rappresentato.

La debolezza sta nel fatto che il titolare non può opporsi a che altri usino un marchio caratterizzato da lievi varianti rispetto al proprio.

Il marchio forte ottiene una maggiore tutela giuridica rispetto a un marchio debole: in virtù della maggiore estraneità con il prodotto che contraddistingue, il marchio forte goderà di una maggiore protezione nei confronti degli imitatori che utilizzano marchi simili.

Tornando al caso di specie, la Corte di Cassazione ha rigettato le pretese di Puma di dichiarazione di contraffazione del marchio “banda ondulata” sulle calzature Simod o, in subordine, di concorrenza sleale con accessoria domanda risarcitoria di Euro 500 mila euro, confermando la sentenza della Corte d’Appello di Venezia.

Secondo la Supera Corte, quindi, il marchio Puma è un marchio debole rispetto al quale le differenze  apportate da Simod sulle proprie calzature sportive presentano una valenza distintiva sufficiente.

A Puma non resta che pagare le spese di lite.

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Dopo Milano e Torino ora tocca a Roma; il Tribunale capitolino, infatti, lo scorso 6 aprile ha ordinato il blocco dei servizi offerti dal gruppo Uber, accogliendo un ricorso cautelare per concorrenza sleale delle associazioni di categoria di tassisti.

uberIl Tribunale ha inibito a Uber di effettuare il servizio di trasporto pubblico con l’uso della app Uber Black e di altre app analoghe, disponendo il blocco di dette applicazioni.

Non solo: oltre a disporre la pubblicazione della sentenza sul sito di Uber, ha fissato anche una penale di Euro 10.000,00  per ogni giorno di ritardo nell’adempimento del blocco medesimo.

Vita difficile, quindi, per il gruppo Uber, il quale rischia di dover interrompere ogni attività in Italia in quanto i servizi ad oggi offerti risultano in contrasto con il diritto nazionale e in concorrenza sleale con gli altri operatori del settore.

Il Tribunale romano ha evidenziato la sussistenza dell’attività concorrenziale tra le parti in quanto entrambe dirette ad effettuare un servizio di trasporto avente come destinatari potenziali la medesima platea di consumatori nel medesimo ambito territoriale.

Tale attività concorrenziale risulta sleale in quanto gli autisti Uber traggono una posizione di indebito vantaggio rispetto al servizio di taxi, non dovendo sottostare a tariffe predeterminate, proponendo prezzi più competitivi nei momenti di minore richiesta e potendo guadagnare di più quando la richiesta è maggiore, per esempio in occasione di eventi particolari.

Tali condotte comportano uno sviamento di clientela a danno dei tassisti che esercitano il servizio rispettando le regole attualmente disciplinanti il servizio di trasporto non di linea (se vuoi approfondire il concetto di sviamento illecito, leggi anche il mio post: Storno di dipendenti e concorrenza sleale).

Attualmente Uber opera in 66 nazioni in più di 507 città.

L’autista Uber deve solo avere la patente da più di 3 anni, avere un’auto propria in buono stato di manutenzione immatricolata da 8 anni e non aver a carico denunce o subito condanne penali.

Per avere la licenza basta registrarsi al sito internet dell’applicazione, senza sostenere esami e/o prove di alcun genere.

Il problema è che anche guidatori non professionisti possono diventare autisti Uber e che le tariffe applicate ai consumatori sono più economiche di quelle applicate dai tassisti regolari.

Forse dovrebbe essere rivisto l’intero meccanismo della licenza in quanto l’orientamento attuale è quello delle liberalizzazioni.

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La Cooperativa Estense conveniva in giudizio Bernardo Caprotti, patron di Esselunga, l’azienda medesima, Marsilio Editori e altri due soggetti, l’economista A. e il giornalista F., chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni, lamentando di essere stata diffamata e di aver subito concorrenza sleale per denigrazione, scorrettezza professionale  pubblicità ingannevole, in relazione al libro “Falce e Carrello – Le mani sulla spesa degli italiani”, scritto da Caprotti ed edito da Marsilio Editori, con prefazione di A. e appendice di F..

caprottiCaprotti avrebbe inteso sferrare un pesante atto di accusa nei confronti della Coop Estense, accusandola di appartenere ad una loggia che le garantirebbe rilevanti favori economici e finanziari, grazie anche alla protezione delle amministrazioni locali di un determinato orientamento politico; di aver creato un monopolio nella distribuzione commerciale; di aver impedito l’espansione delle imprese concorrenti e di essere un’impresa inefficiente e non vantaggiosa per i consumatori.

Il Tribunale e la Corte d’Appello di Milano rigettavano le domande della Coop. Estense, ritenendo applicabile ai dedotti illeciti diffamatori e concorrenziali l’esimente del diritto di critica e della libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantiti.

In particolare, per quanto concerneva il presunto illecito concorrenziale, i Giudici milanesi ritenevano che mancava la prova dell’effettivo storno della clientela della Cooperativa in favore di Esselunga e di effettive perdite economiche subite dalla Coop. Estense.

La Corte di Cassazione ribalta il verdetto.

Secondo la Suprema Corte, la concorrenza sleale non si perfeziona necessariamente attraverso la produzione di un pregiudizio attuale al patrimonio del soggetto concorrente, essendo sufficiente anche il mero pericolo di un danno concorrenziale, inteso come difficoltà di mercato potenzialmente arrecata all’altrui impresa, sia dal lato della clientela (possibile perdita di clienti, fornitori e finanziatori), sia dal lato dell’organizzazione aziendale (eventuale sfiducia dei dipendenti), non essendo quindi necessario un effettivo danno.

In secondo luogo, la Cassazione spiega che ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico non debbono necessariamente riguardare i prodotti dell’impresa concorrente, ma possono avere ad oggetto anche circostanze e opinioni inerenti in generale l’attività di quest’ultima e la sua organizzazione, la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea  a ripercuotersi negativamente sull’idea di cui l’impresa gode presso i consumatori.

La questione, pertanto, ritorna all’attenzione della Corte d’Appello milanese, la quale dovrà adeguarsi ai principi enunciati dalla Cassazione.

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Packaging, contraffazione e concorrenza sleale: interessante pronuncia delle Sezioni Specializzate del Tribunale di Milano del 2016 relativamente ad un bene di consumo comune, ovvero un tubetto di colla.

glue-1418667La società Alfa conveniva in giudizio la società Beta lamentando comportamenti di contraffazione dei propri diritti industriali e di concorrenza sleale.

In particolare, Alfa riferiva di essere venuta a conoscenza che un proprio cliente e distributore, la società Beta, importava e commercializzava una colla che si poneva in rapporto di concorrenza sleale e di contraffazione rispetto alla propria, il cui nome costituiva marchio registrato e il cui packaging era sempre rimasto invariato sin dal 1972, risultando quest’ultimo pedissequamente copiato dal prodotto commercializzato da Beta.

Alfa lamentava, pertanto, l’illecito di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c. ed, in particolare, quelle per uso di segno distintivo e confondibile altrui, per imitazione servile, appropriazione di pregi e concorrenza parassitaria, nonché contraffazione del marchio di forma di fatto, costituito dal packaging della propria colla.

Si costituiva in giudizio Beta, richiedendo il rigetto di tutte le domande formulate da parte attrice, sostenendo la non confondibilità dei due prodotti.

In particolare, Beta evidenziava sia la diversità dei formati con cui le colle venivano commercializzate, sia il diverso nome e marchio apposto sulla confezione cartonata e sul tubetto che contiene il prodotto. Per quanto concerneva la concorrenza sleale, Beta sosteneva l’assenza di concorrenza parassitaria in quanto questa sussiste solo in presenza di un’imitazione continua, sistematica e durevole.

La questione centrale affrontata dal Tribunale di Milano riguarda i diritti che Alfa può vantare sul packaging del proprio prodotto.

A parere del Tribunale milanese, Alfa non avrebbe fornito alcuna prova in merito agli elementi costitutivi della contraffazione del marchio di fatto concernente il packaging della propria colla, ovvero la diffusione sul mercato della stessa e la convinzione radicatasi presso il pubblico dell’immediata riconducibilità di un simile marchio di forma ad Alfa medesima. La tutela concernente il marchio di fatto veniva, pertanto, rigettata.

Miglior sorte aveva l’ulteriore tutela invocata, vale a dire quella della concorrenza sleale: dalle fotografie e dai campioni depositati da Alfa – reputa il Tribunale – risulta chiaramente che il packaging dei prodotti contestati integri una pedissequa imitazione di quelli di Alfa . La copiatura sarebbe talmente evidente anche in ragion del fatto che la confezione di Beta richiamava persino un riferimento normativo riportato in modo sbagliato già nella confezione del prodotto di Alfa. Anche i tubetti e i box trasparenti in plastica risultano nel complesso una pedissequa copiatura di quelli di Alfa, così da determinare un forte richiamo nella percezione del consumatore, soprattutto al confronto a distanza che deve essere assunto a base della valutazione di confondibilità.

Il Tribunale ritiene, pertanto, sussistere l’illecito di concorrenza sleale per imitazione servile e per appropriazione dei pregi dell’altrui prodotto. Non ritiene, invece, che sia rinvenibile la concorrenza sleale parassitaria, avendo gli atti imitativi riguardato un solo prodotto.

La società convenuta veniva condannata al risarcimento del danno nella misura di Euro 15.000,00. Tale voce risarcitoria comprende sia il mancato guadagno, parametrato sulla base degli utili conseguiti dalla società Beta (Euro 9.108,48), sia il danno all’immagine (Euro 4.554,24, ovvero il 50% dei mancati guadagni) sia, infine, la rivalutazione monetaria e interessi legali (Euro 1.337,28).

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La decisione della Corte di Giustizia Unione Europera del 17.3.2016 affronta il tema della risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente alla violazione di un diritto di proprietà intellettuale.

440_16_50133_0In passato, la violazione di un diritto su un bene immateriale era una questione che veniva interamente ricondotta ad un problema di responsabilità civile, che la giurisprudenza affrontava liquidando i danni in maniera perlopiù simbolica.

Per un lungo periodo di tempo il rimedio risarcitorio basato sulla responsabilità del codice civile ha rappresentato l’unica soluzione disponibile al problema della contraffazione.

Muovendo dalla rilevata inadeguatezza del tradizionale sistema risarcitorio basato su tale responsabilità , verso la fine degli anni ’50 sono state avanzate le prime proposte di affiancamento dei rimedi restitutori a quelli risarcitori nella lotta alla contraffazione.

Dinnanzi all’insoddisfacente ammontare del risarcimento dei danni patrimoniali liquidati dall’autorità giudiziaria, si iniziò a fare riferimento nella pratica allo sfuggente elemento del danno morale, con il proposito di integrare la carente entità dei danni liquidati. In tal modo aprendo la strada alla valutazione di elementi non patrimoniali nella quantificazione del risarcimento del danno non patrimoniale da violazione di un diritto di proprietà industriale.

In quest’ottica, la Direttiva enforcement (Dir. 2004/48/CE, del 29 aprile 2004), ha segnato un punto significativo in materia di riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale a livello comunitario.

In caso di violazione consapevole o colposamente inconsapevole, il titolare può optare per una liquidazione effettuata tenendo conto (A) “di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno subito dalla parte lesa, i benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto della violazione”. Altrimenti il soggetto leso può prescegliere il metodo di quantificazione dei danni (B) secondo il quale gli stessi vanno calcolati in misura forfettaria, tenendo conto dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti qualora l’autore della violazione avesse richiesto l’autorizzazione per l’uso del diritto di proprietà intellettuale in questione.

La questione sottoposta all’attenzione del Giudice comunitario riguardava la possibilità di chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale previsto da (A) pur avendo optato per la metodologia di calcolo dei danni patrimoniali sub (B).

Il Giudice comunitario risponde affermativamente, determinandosi a favore della necessità di riconoscere il risarcimento del danno morale anche nel caso di quantificazione del danno secondo il modello di calcolo forfettario.

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Concorrenza sleale: la proposizione di una singola denuncia in sede penale nei confronti di un competitor, ove manifestamente infondata, non integra ipotesi di concorrenza sleale  concernente la diffusione di notizie e/o apprezzamenti idonei a determinare discredito sul concorrente, bensì ipotesi di concorrenza  sleale posta in essere mediante violazione dei principi di correttezza professionale.

concorrenza slealeQuesto il principio stabilito dal Tribunale di Firenze, Sezione specializzata in materia di impresa, nel giugno del 2016.

La società Alfa lamentava di aver subito un sequestro di orologi dalla stessa commercializzati in sede penale, in quanto ritenuti contraffazione del disegno/modello di cui Beta risultava titolare.

Alfa sosteneva, da un lato, la nullità del titolo di proprietà industriale di Beta per difetto del requisito della “novità”, avendo avuto gli orologi commercializzati da Alfa pregressa commercializzazione, dall’altro sosteneva di aver subìto ingenti danni, proprio per effetto dell’avversaria denuncia penale.

Beta, dal canto suo, respingeva tutte le accuse mosse da Alfa.

Il Tribunale riteneva che una singola e infondata denuncia effettuata in sede penale non poteva integrate la fattispecie di concorrenza sleale concernente la diffusione di notizie e/o apprezzamenti idonei a determinare discredito sul concorrente, essendo carente quella che viene definita come “condotta diffusoria”, che presuppone una pluralità, anche potenziale, di destinatari, assente nel caso di specie.

Tuttavia, il Giudice fiorentino riteneva integrata l’ulteriore fattispecie della cd. concorrenza sleale contraria ai princìpi della correttezza professionale, idonea a danneggiare l’altrui azienda.

Da ciò derivava la fondatezza della domanda risarcitoria formulata da Alfa.

La clausola generale della correttezza professionale dettata in materia di concorrenza sleale garantisce possibilità di tutela alle fattispecie non espressamente previste dalla legge.

La dottrina e la giurisprudenza hanno comunque identificato una serie di ipotesi che nella prassi si sono tipizzate.

Oltre a casi come quello affrontato dal Tribunale fiorentino, tra le pratiche più ricorrenti si segnalano le “vendite sottocosto” (c.d. dumping) che costituiscono pratica concorrenziale illecita per il solo fatto di determinare effetti monopolistici e/o eliminare concorrenti dal mercato, indipendentemente dal fine specifico di estromettere i propri concorrenti.

Altra ipotesi è il “boicottaggio economico”, vale a dire le ipotesi del rifiuto di contrarre e l’induzione di altri imprenditori a non stipulare contratti o intraprendere rapporti con un concorrente, impedendo la permanenza sul mercato del soggetto leso.

La “concorrenza parassitaria” è un altro esempio, consistendo nell’imitazione continua e sistematica delle iniziative imprenditoriali di uno o più concorrenti.

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Marchio di fatto: è possibile utilizzare un marchio non registrato e ottenere tutela contro chi deposita successivamente un marchio identico o simile?

contestazione disciplinareIl marchio è un segno distintivo finalizzato ad individuare prodotti e/o servizi di una specifica impresa.

Ogni marchio può essere registrato.

La registrazione, tuttavia, non è condizione di validità del marchio, il quale può esistere anche in assenza della stessa, configurando il cd. “marchio di fatto”, essendo possibile utilizzare un marchio non registrato, oppure registrarlo in un momento successivo rispetto all’inizio dell’attività imprenditoriale.

Il diritto ad utilizzare un marchio sorge con il semplice utilizzo dello stesso da parte dell’imprenditore; nello specifico, il valore dello marchio è strettamente legato alla sua notorietà presso il consumatore come segno distintivo e all’ambito territoriale in cui lo stesso è riconosciuto.

Ovviamente, chi utilizza un marchio di fatto è esposto al rischio che, nel frattempo, altro soggetto registri un marchio uguale e/o simile per un prodotto e/o servizio uguale o simile.

In tali casi, la tutela giuridica che l’ordinamento offre al titolare del marchio di fatto dipende dalla sua estensione territoriale.

Se il marchio è noto solo localmente, il titolare del marchio di fatto non può impedire ad altri di utilizzare e/o registrare un marchio identico o simile, potendo esclusivamente proseguire l’utilizzo dello stesso nel medesimo ambito territoriale in cui lo utilizzava prima della registrazione altrui.

Diverso il caso in cui un marchio di fatto sia diffuso a livello nazionale: il titolare dello stesso potrà adire l’Autorità giudiziaria per chiedere l’accertamento della nullità del marchio identico o simile successivamente registrato da terzi per prodotti /o servizi identici o affini.

La giurisprudenza ha evidenziato che, nella realtà attuale, il fenomeno pubblicitario e la crescente mobilità dei consumatori restringono notevolmente i casi di notorietà puramente locale, in quanto rendono agevole e “normale” che un prodotto contraddistinto da un certo marchio, se pur prevalentemente (o anche esclusivamente) commercializzato in una determinata realtà locale, sia tuttavia noto anche al di fuori di essa.

La notorietà locale pare, quindi, doversi individuare nei casi in cui il marchio contraddistingua beni o servizi che, per loro natura, difficilmente possono essere conosciuti al di fuori di un certo ambito locale.

La tutela del marchio di fatto va ricondotta alle norme concernenti la concorrenza sleale in termini di confusione tra i consumatori circa la provenienza di un determinato prodotto e/o servizio.

Si tenga presente, in ogni caso, che se i consumatori – nonostante l’identità del segno – sono in grado di individuare correttamente la provenienza dei prodotti (recanti lo stesso segno) da due imprenditori diversi, deve escludersi il rischio di confusione che le norme sulla concorrenza sleale mirano a scongiurare; ne consegue, per l’effetto, l’assenza di qualsivoglia tutela in capo al titolare del marchio di fatto.

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Concorrenza sleale: non è  concepibile un atto di concorrenza sleale tra una testata giornalistica sia pure di rilievo nazionale ed inserita in un gruppo imprenditoriale ben definito ed altro gruppo la cui attività sia estremamente ampia e ramificata e non riconducibile al solo settore del presunto danneggiato.

contestazione disciplinareQuesto, in sostanza, è quanto statuito dalla Corte di Cassazione, chiamata a decidere in merito ad un contenzioso che ha visto contrapposti, da una parte, Mediaset S.p.A. e, dall’altra, il gruppo editoriale L’Espresso e due giornalisti.

Mediaset conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Roma il gruppo editoriale L’Espresso e altri due giornalisti affinchè fossero tutti condannati  al risarcimento dei danni conseguenti alla pubblicazione, sul quotidiano La Repubblica, di tre articoli e due repliche con i quali si sarebbe posta in essere un’ingiusta campagna denigratoria nei confronti di Mediaset, oltre ad una violazione delle regole in materia di concorrenza sleale.

In particolare, la concorrenza sleale doveva ravvisarsi nel riferimento agli atti di “vampirismo commerciale” compiuti dalla società Mediaset per dissanguare l’intero contesto dell’informazione, nell’aver definito Mediaset come un’azienda- partito per la quale “non esistono regole, sentenze o direttive” nonchè per aver attribuito alla medesima lo svolgimento di pratiche volte a creare gravi distorsioni sul mercato.

Secondo Mediaset l’obiettivo era chiaro: denigrare, agli occhi dell’opinione pubblica, l’intero gruppo imprenditoriale , con una serie di contenuti e considerazioni idonei a screditarne l’immagine commerciale; la concorrenza sleale andava, in ogni caso, punita anche in presenza della diffusione di notizie vere ma, pur sempre, idonee a screditare il competitore commerciale.

Sia il Tribunale, sia la Corte d’Appello di Roma respingono la tesi di Mediaset.

La Corte di Cassazione, nuovamente, si allinea con i precedenti gradi di giudizio: imprescindibile presupposto di un atto di concorrenza sleale è la sussistenza di una reale situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, il che presuppone il contemporaneo esercizio di una stessa attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune.

Tanto implica che l’atto di concorrenza sleale non è configurabile quando manchi il presupposto costituito, appunto, dal rapporto di concorrenzialità.

Adattando tale principio al caso in esame, la Suprema Corte afferma come non sia giuridicamente concepibile un atto di concorrenza sleale tra una testata giornalistica – sia pure di sicuro rilievo nazionale quale il quotidiano La Repubblica ed inserita in un gruppo imprenditoriale ben definito – ed altro gruppo, quale quello facente capo a Mediaset S.p.A.,  la cui attività è estremamente ampia e ramificata e non riconducibile al solo settore dell’informazione.

A Mediaset non resta che pagare le spese di giudizio.

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