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Un recente caso affrontato in studio ci consente di fare il punto in materia di sospensione cautelare nei procedimenti disciplinari avviati da un datore di lavoro nei confronti di un dipendente.

sospensione cautelare

Anzitutto: cosa è la sospensione cautelare?

La sospensione cautelare è una misura volta a sospendere il servizio lavorativo contemporaneamente alla contestazione disciplinare di un’infrazione a carico di un lavoratore.

Come funziona la sospensione cautelare?

Il datore di lavoro può applicare questa misura quando i tempi del procedimento disciplinare sono incompatibili con la presenza del lavoratore in azienda, in considerazione della gravità delle infrazioni disciplinari contestate.

Si tratta di una misura che cessa nel momento in cui il procedimento disciplinare è ultimato.

La decisione di applicare tale misura va indicata nella lettera di contestazione disciplinare.

La sospensione cautelare spesso viene confusa con la sospensione disciplinare.

Si tratta invece di due figure totalmente differenti:

  • la prima infatti è una misura provvisoria, per consentire al datore di lavoro di accertare i fatti e nel frattempo allontanare il lavoratore dall’azienda ed ha efficacia nel corso del procedimento disciplinare fino al termine dello stesso;
  • la seconda è invece una sanzione disciplinare che il datore di lavoro applica al termine del procedimento disciplinare.

La “sospensione cautelare” non va confusa con la “sospensione disciplinare”.

Di regola, la sospensione cautelare non comporta il venir meno della retribuzione. Ciò a meno che non sia espressamene previsto dal CCNL la facoltà di sospendere anche la retribuzione (App. Brescia Sez. Lavoro, Sent. 7.04.2017). Importante quindi è previamente verificare se il CCNL applicato in azienda disciplina questa misura e in che termini.

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Cosa fare durante un incontro per l’audizione del lavoratore in un procedimento disciplinare? come comportarsi?

Andiamo con ordine. L’azienda ha scoperto il proprio dipendente commette un’infrazione disciplinare ed ha contestato per iscritto il fatto comunicando una lettera di contestazione disciplinare.

Ricevuta la lettera, il lavoratore ha un termine per giustificarsi.

Di solito il termine è di 5 giorni, ma può essere anche più lungo in base a quanto indicato nel CCNL applicato dall’azienda, che quindi va sempre consultato.

A questo punto, entro tale termine, il lavoratore ha tre possibilità:

  1. comunicare le proprie giustificazioni per iscritto;
  2. chiedere l’audizione orale;
  3. non giustificarsi affatto.

In realtà, c’è anche un ibrido: il lavoratore potrebbe giustificarsi per iscritto e in fondo alla lettera chiedere comunque l’audizione.

Parliamo quindi di audizione.

Anzitutto, se l’azienda riceve una richiesta di audizione, non può rifiutarla, in quanto legata al diritto di difesa del lavoratore.

L’audizione è una facoltà del lavoratore nel procedimento disciplinare, che, se tempestivamente richiesta, il datore di lavoro non può rifiutare

Cosa deve fare l’azienda quando riceve tale richiesta?

Alla richiesta del lavoratore va risposto con una comunicazione nella quale viene stabilito il giorno, l’ora e il luogo dell’incontro.

Come deve comportarsi l’azienda durante l’audizione?

L’audizione è un incontro, durante il quale il lavoratore dà le proprie giustificazioni, ossia prende posizione verbalmente sui fatti contestati.

L’azienda deve, quindi, ascoltare e non deve fare altro. In particolare, l’azienda non deve prendere nessuna decisione in quel momento. Solo successivamente l’azienda dovrà comunicare l’eventuale decisione di applicare una sanzione disciplinare.

Non è obbligatorio redigere un verbale, potendo l’azienda limitarsi a prendere appunti.

Chi partecipa all’incontro?

Lo statuto dei lavoratori (art. 7 L. 300/70), consente che il lavoratore possa farsi assistere dal sindacato. Il lavoratore può farsi assistere da una qualsiasi organizzazione sindacale, anche minoritaria, può indicare un sindacalista di fiducia e può, persino, farsi assistere da un sindacato a cui non è iscritto, ma conferisce mandato appositamente per l’assistenza nel procedimento disciplinare.

In quale luogo fare l’incontro?

E’ opportuno che l’incontro avvenga nell’ambito aziendale (quindi la sede legale o la dipendenza a cui è addetto il lavoratore). Peraltro, ci è capitato il caso di un lavoratore che si lamentasse di essere stato convocato in luogo diverso dalla sede in cui svolgeva la prestazione lavorativa. Al riguardo, tuttavia, la giurisprudenza ha chiarito che la convocazione del lavoratore nel luogo di lavoro non rientra nei diritti del lavoratore, purché la convocazione in luoghi diversi non si traduca, per la difficoltà della sua attuazione, in una violazione del diritto di difesa.

Sul tema dell’audizione del lavoratore puoi trovare ulteriori indicazioni nel mio post: audizione del lavoratore.

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L’affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti è un obbligo imposto al datore di lavoro dall’art. 7 Statuto Lavoratori.

affissione del codice disciplinareCosa si intende per codice disciplinare?

Il codice disciplinare è l’insieme delle regole relative alle infrazioni disciplinari, alle sanzioni e alla procedura di contestazione delle stesse.

Il datore di lavoro è tenuto quindi a far conoscere tali regole ai propri dipendenti.

Si tratta di un obbligo che ha effetti sui procedimenti disciplinati avviati dal datore di lavoro.

Infatti, in mancanza di valida affissione, la sanzione disciplinare eventualmente comunicata è nulla.

Cosa va fatto quindi da parte del datore di lavoro per assolvere a tale obbligo?

Anzitutto, vanno individuati i documenti oggetto di affissione.

Il consiglio è quello di provvedere all’affissione dei seguenti documenti:

  • gli artt. 2104, 2105 e 2106 del codice civile;
  • l’art. 7 Statuto Lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 300);
  • stralcio del CCNL applicato dall’azienda nella parte che contiene le specifiche norme disciplinari (quindi, doveri del lavoratore, procedimento disciplinare, infrazioni e sanzioni);
  • eventuale regolamento interno aziendale relativo alle infrazioni disciplinari.

Di tali documenti va effettuata l’affissione “in luogo accessibile a tutti“.

Le norme disciplinari devono essere portate a conoscenza dei lavoratori con affissione in luogo accessibile a tutti.

Per luogo accessibile a tutti si intende un luogo a cui i dipendenti possono facilmente accedere, fermandosi e prendendo conoscenza delle regole relative al rapporto di lavoro.

Quindi, il datore di lavoro deve individuare dei locali in cui i dipendenti possono liberamente entrare (non spazi chiusi a chiave o ad ingresso riservato), in cui i dipendenti stessi transitano frequentemente e dove, ad esempio, ricevono le comunicazioni aziendali.

L’affissione di solito viene effettuata in bacheche, ben esposte e con vetrine chiuse, in modo che non si possa asportare il contenuto.

Nell’ipotesi in cui l’impresa opera presso terzi utilizzando locali di altri per tenervi materiali o persone, è bene effettuare l’affissione anche in tali locali.

Infine, sul tema del rapporto tra l’obbligo di affissione del codice disciplinare e i comportamenti dei lavoratori contrari a norme penali o al c.d. “minimo etico” si possono trovare indicazioni nel mio precedente post: Obbligo di affissione del codice disciplinare e “minimo etico”.

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Diritto di opzione e patto di non concorrenza: la scelta di attivare o meno il relativo obbligo può spettare al datore di lavoro.

diritto di opzione

L’argomento è di grande attualità.

Sempre più spesso i datori di lavoro fanno firmare ai propri dipendenti un patto di non concorrenza.

La legge consente a datore di lavoro e dipendente di stipulare un patto con il quale viene limitato lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.

Per la validità del patto, è richiesta la puntuale indicazione del corrispettivo a favore del dipendente e dei limiti di oggetto, di tempo e di luogo entro cui sarà contenuto il vincolo lavorativo.

Così facendo, il datore di lavoro vuole proteggere il know how dell’azienda, evitando che l’ex dipendente svolga successivamente un’attività in concorrenza con quella della società.

C’è però un problema di natura economico.

Al momento dell’assunzione il datore di lavoro non sa se il vincolo del patto di non concorrenza si renderà necessario al termine della collaborazione.

Il rischio per il datore di lavoro è quello di un inutile esborso economico.

La questione, pertanto, è quando e in che modo il datore di lavoro possa scegliere di non attivare detto patto e lasciar libero il proprio dipendente.

Una prima alternativa potrebbe essere quella del recesso unilaterale da parte del datore di lavoro, consentendo a quest’ultimo di uscire dal patto prima che questo venga eseguito.

Recentemente, tuttavia, la Corte di Cassazione ha decretato la nullità della clausola che rimette all’arbitrio del datore di lavoro la risoluzione del patto di non concorrenza.

Così facendo, per esempio, verrebbe meno il pagamento del compenso (relativo al patto) al dipendente, rimandendo delusa la sua aspettativa di remunerazione.

Altra soluzione, più flessibile, è rappresentata dal diritto di opzione.

Può essere consentito alle parti di accordarsi in maniera tale che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione per un certo periodo di tempo, essendo facoltà dell’altra decidere se “approfittare” o meno della dichiarazione.

Datore di lavoro e dipendente possono stabilire che quest’ultimo rimanga vincolato per un periodo di tempo al proprio impegno di non concorrenza. Sarà poi il datore di lavoro a scegliere se rendere definitivo l’impegno o se liberare il dipendente.

Quindi, il patto di non concorrenza non si perfeziona al momento dell’accordo delle parti: è il datore di lavoro, in virtù di tale accordo, a decidere in un momento successivo se far entrare o meno in vigore il patto.

Diritto di opzione: la protezione del valore concorrenziale dell’impresa attraverso la predisposizione di un patto di non concorrenza costituisce un’operazione delicata che è bene che venga redatto da un professionista del settore.

Se sei un imprenditore e pensi che la stipula di un patto di non concorrenza possa tutelare al meglio la tua azienda, puoi contattare uno dei nostri avvocati per una consulenza.

 

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Ci capita spesso che le aziende ci contattino per avere informazioni sugli aspetti legati al diritto del lavoro nell’ambito di contratti di appalto.

appaltoL’argomento è molto ampio. In questo post vorrei porre l’attenzione su un primo aspetto fondamentale: l’appaltatore, in quanto tale, fornisce un servizio, non dipendenti.

Le società che possono fornire legittimamente manodopera sono le Agenzie di somministrazione, che hanno particolari requisiti (sono iscritte in apposito albo, autorizzate dal Ministero del Lavoro, ed accreditate dalle regioni). Al di fuori di questi soggetti vige il divieto di somministrazione di manodopera.

L’appaltatore, dunque, non deve fornire manodopera, ma deve fornire un servizio (un “pacchetto”) al committente, da cui quest’ultimo deve attendersi solo il risultato.

L’appaltatore è, infatti, un imprenditore e deve possedere una propria struttura, un’organizzazione di mezzi (macchinari, capitali, attrezzature), ed assumere il rischio d’impresa (quindi deve svolgere una propria attività imprenditoriale abitualmente e operare per conto di differenti imprese) e avere una elevata professionalità e specializzazione.

Da qui il fatto che il committente non può direttamente dirigere, coordinare, gestire, contestare infrazioni disciplinari ai dipendenti dell’appaltatore, che in quanto imprenditore gestisce da solo i propri dipendenti.

Il committente non può coordinare, gestire o richiamare per infrazioni disciplinare i dipendenti dell’appaltatore.

Il committente potrà rivolgersi, in caso di esigenza, al preposto dell’appaltatore, nominato da quest’ultimo.

E’ l’appaltatore, con il suo preposto, che poi potrà interfacciarsi con i propri dipendenti.

Se invece l’appaltatore mette a disposizione mera manodopera al committente, quest’ultimo corre il rischio di vedersi contestata l’interposizione illecita di manodopera.

In tal caso, i lavoratori impiegati nell’appalto potrebbero rivendicare la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del committente stesso.

Vi sono poi altri aspetti, altrettanto importanti, che l’impresa committente deve considerare. Ad esempio, gli obblighi di sicurezza su cui va posta specifica attenzione o ancora la responsabilità solidale per retribuzioni, ecc.

In tema di responsabilità solidale per retribuzioni, contributi e premi assicurativi dei lavoratori impegnati nell’appalto si possono trovare ulteriori indicazioni nel mio precedente post Lavoratori in appalto e diritto del lavoro.

Se sei un’azienda alle prese con la gestione di contratti di appalto e vuoi approfondire l’argomento e saperne di più clicca qui.

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Licenziamento tramite whatsapp: si ha quando un’azienda, invece di inviare per raccomandata o consegnare a mani la lettera di licenziamento, invia al cellulare del proprio dipendente il messaggio di non presentarsi più al lavoro, interrompendo in tal modo il rapporto.

licenziamento tramite whatsappIl messaggio di licenziamento tramite whatsapp inviato dall’azienda soddisfa il requisito della forma scritta?

Eh si, perché la prima contestazione che potrebbe muovere il dipendente riguarda proprio il vizio di forma scritta del licenziamento.

Infatti, la regola è che: il licenziamento deve avere forma scritta. Lo stabilisce l’art. 2 L. 604/1966. In mancanza di forma scritta il licenziamento è inefficace.

Quindi, niente licenziamenti verbali (ad esempio, il capo che dice “basta, vattene, sei licenziato!”); come detto sono inefficaci.

Il licenziamento deve avere la forma scritta

Ebbene, in materia di licenziamento tramite whatsapp, una recente giurisprudenza conferma: è valido il licenziamento tramite whatsapp perché si tratta di una forma scritta, conoscibile da parte del destinatario (Corte d’Appello di Roma, sez. lavoro, 23.04.2018).

Ulteriore conferma si ha anche in un’altra  sentenza precedente (Tribunale di Catania del 2017). Al riguardo, sul tema della validità del licenziamento con whatsapp si possono trovare ulteriori indicazioni nel mio post: Licenziamento con whatsapp…vale?

Il licenziamento tramite whatsapp ha la forma scritta.

Ovviamente, quanto al mittente, la comunicazione deve essere riferibile al datore di lavoro e il destinatario deve essere il lavoratore.

Poi, un ulteriore passaggio da verificare riguarda la prova del ricevimento del licenziamento, ossia della conoscibilità da parte del destinatario della comunicazione.

Nelle sentenze sopra indicate, è stata ritenuta provata la conoscenza del licenziamento tramite whatsapp da parte del lavoratore.

In particolare, nella prima sentenza, il lavoratore aveva prodotto lui stesso in giudizio la stampa di whatsapp, dandone quindi conferma della ricezione e nell’altra sentenza, il giudice aveva fatto leva sul fatto che il lavoratore aveva impugnato il licenziamento e perciò lo conosceva.

Ovviamente, la verifica sulla validità del licenziamento non finisce qui.

Passato il requisito della forma scritta e della conoscibilità della comunicazione, vi potrebbero essere ulteriori verifiche in caso di contenzioso, tra cui: l’eventuale rispetto della procedura disciplinare, la sussistenza delle ragioni che giustificano il licenziamento e tanto altro.

Il licenziamento è infatti un atto molto delicato, su cui è doveroso prestare la massima attenzione, perché le conseguenze in caso di errori possono essere molto costose per l’azienda.

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Può capitare che un’azienda sospetti che un proprio dipendente ponga in essere dei comportamenti scorretti e, per verificare se i propri dubbi sono fondati, incarica un investigatore privato per controllare il dipendente.

investigatore privato per controllare il dipendente

Può accadere – anche se si auspica il contrario – che l’investigatore confermi i sospetti sul dipendente.

Come si deve comportare l’azienda?

Ebbene, prima di prendere decisioni sull’applicazione di una sanzione disciplinare (tra cui anche il licenziamento), è bene che l’azienda verifichi che sia stato corretto il ricorso ad un investigatore privato per controllare il dipendente.

Un recente caso affrontato dai Giudici della Corte di Cassazione (Cass. Civ. n. 21621 del 4.09.2018) ci fornisce un chiaro esempio.

In questo caso l’azienda sospettava che un proprio dipendente truccasse le proprie presenze in servizio. Peraltro, il lavoratore in questione era proprio addetto alla mansione di rilevamento delle presenze in servizio.

Per dissipare i dubbi, l’azienda incaricava un investigatore privato per controllare il dipendente. Purtroppo, l’investigatore confermava che in diverse giornate il lavoratore aveva fatto figurare la propria presenza in azienda mentre invece era assente.

L’azienda quindi licenziava in tronco il dipendente.

Il dipendente, ritenendo ingiusto il licenziamento, lo impugnava, potando il caso davanti ai giudici.

Quali sono state le sorti del licenziamento? legittimo o illegittimo?

I Giudici hanno chiarito che il controllo dell’investigatore privato non può spingersi fino a verificare lo svolgimento dell’attività lavorativa del dipendente. Quindi, l’investigatore privato non può controllare se il lavoratore arriva in orario, se si assenta nel corso della giornata, se fa bene il suo lavoro, perché questo controllo è un compito riservato al datore di lavoro e ai suoi collaboratori.

E’ invece lecito il controllo dell’investigatore per verificare se il dipendente commette degli illeciti (ad esempio dei reati) a danno dell’azienda.

Le agenzie di investigazione non possono vigilare sull’adempimento dell’attività lavorativa, che è riservata al datore di lavoro e ai suoi collaboratori.

Quindi, in questo caso i Giudici hanno dato ragione al lavoratore ed hanno dichiarato illegittimo il licenziamento.

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Un’azienda che vuole stipulare nuovi contratti a termine oppure effettuare proroghe o rinnovi si chiederà: casa è cambiato per i contratti a termine dopo il decreto dignità?

contratti a termine dopo il decreto dignità

Buona questione, perché in effetti, il 14.07.2018 è entrato in vigore il decreto dignità, convertito in legge il 12 agosto 2018.

Vediamo, quindi, le principali novità sui contratti a termine dopo il decreto dignità.

1. Durata del contratto a termine

Viene ridotta la durata del contratto a termine, che può essere stipulato per una durata non superiore a 12 mesi.

Si può anche stipulare una durata superiore, purché comunque non superi i 24 mesi e solo in presenza di una delle seguenti causali:

– “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori”;

– “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”.

Quindi, per i contratti a termine dopo il decreto dignità bisogna distinguere: se hanno durata non superiore a 12 mesi non occorrono le causali. Per quelli invece tra i 12 e i 24 mesi sono state re-introdotte le causali.

Infine, ad eccezione delle attività stagionali, in caso di successione di contratti a termine tra stessa azienda e stesso dipendente per mansioni di pari livello e categoria, la durata dei rapporti di lavoro non può comunque superare i 24 mesi. Per il calcolo di tale periodo, si deve tener conto anche dei periodi di lavoro, con mansioni di pari livello e categoria, svolti con contratti di somministrazione a termine.

Quali rischi?

Quali rischi in caso di contratti di durata superiore ai 12 mesi in assenza delle causali? Il contratto si trasforma a tempo indeterminato dal superamento dei 12 mesi.

Quali rischi se il limite dei 24 mesi è superato? Anche se ci sono le causali, sia in caso di unico contratto che di successione di contratti, se si supera il limite dei 24 mesi, il contratto si trasforma a tempo indeterminato dal superamento dei 24 mesi.

2. Proroghe

Se l’azienda vuole prorogare il contratto con il dipendente, può farlo liberamente nei primi 12 mesi (senza causali).

Dopo i 12 mesi, la proroga è ammessa se sussiste una delle causali indicate al paragrafo 1. La causale va specificata per iscritto.

N.b.: tale regola non si applica ai contratti per attività stagionali.

Infine, altra modifica apportata dal decreto dignità: le proroghe passano da 5 a 4. Infatti, l’azienda può prorogare un contratto a termine per un massimo di 4 volte nell’arco di 24 mesi.

Quali rischi?

Quali rischi se si proroga un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza di causali? Se si proroga un contratto a termine con durata superiore ai 12 mesi in assenza delle causali, il contratto si trasforma a tempo indeterminato.

Quali rischi se non si rispetta il limite delle proroghe? Se il numero delle proroghe è superiore a 4 nell’arco di 24 mesi, il contratto si trasforma a tempo indeterminato dalla 5a proroga.

3. Rinnovi

Se l’azienda vuole rinnovare il contratto allo stesso dipendente, deve sussistere una delle causali indicate al paragrafo 1, che va specificata nel contratto.

N.b.: tale regola non si applica ai contratti per attività stagionali.

Infine, attenzione: le modifiche della disciplina sulle proroghe ed i rinnovi si applicano a rinnovi e proroghe successivi al 31.10.2018.

Quali rischi?

Quali rischi se si rinnova un contratto a termine con lo stesso dipendente in assenza delle causali? Il contratto si trasforma a tempo indeterminato.

4. Termine impugnazione contratto

Infine, è aumentato il termine concesso al lavoratore per l’impugnazione del contratto a termine, che passa da 120 a 180 giorni dalla fine del singolo contratto. Resta invece fermo il successivo termine di ulteriori 180 giorni per l’avvio del giudizio.

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In un’azienda è avvenuto un litigio tra colleghi, sfociato nell’aggressione fisica di un collega ai danni dell’altro. L’azienda può procedere ad un licenziamento del dipendente aggressore?

La Corte di Cassazione ha di recente pronunciato una sentenza su questo caso, peraltro, assai frequente, considerato che anche in studio abbiamo di recente affrontato una questione di litigio tra colleghi sul posto di lavoro.

La controversia arrivata in Cassazione riguarda un dipendente che ha avuto un litigio con una collega, che è sfociato nelle vie di fatto. Tutto ciò provocato da futili motivi.

L’azienda scoperto l’accaduto ha avviato un procedimento disciplinare, terminato con il licenziamento del dipendente.

Ritenendo ingiusto il provvedimento, il dipendente ha avviato un giudizio per ottenere la reintegra nel posto di lavoro.

All’esito del giudizio, i Giudici hanno anzitutto ritenuto provati i fatti. In particolare, si sono basati su una testimonianza di un terzo collega che aveva assistito ai fatti ed aveva confermato che in azienda si era verificato il litigio tra colleghi sfociato nell’aggressione fisica da parte di uno in danno dell’altra.

Ciò posto, i Giudici hanno poi valutato se il comportamento addebitato al dipendente aggressore fosse grave al punto tale da giustificare la decisione del licenziamento da parte dell’azienda.

La soluzione è stata positiva. I Giudici hanno evidenziato che il dipendente, con la condotta tenuta, ha mostrato una incapacità di autocontrollo a fronte dell’ambiente lavorativo in cui si trovava, nei confronti della collega, aggravato dal fatto che la situazione fosse stata scatenata da futili motivi. Ciò ha giustificato il venir meno della fiducia da parte del datore di lavoro sulle future prestazioni lavorative.

Il litigio tra colleghi, sfociato nelle vie di fatto, comporta il venir meno dell’affidamento del datore di lavoro sul futuro rispetto da parte del dipendente della disciplina aziendale e delle regole del vivere civile.

I Giudici hanno quindi dato ragione all’azienda ed hanno confermato la legittimità del licenziamento (Cass. Civ. Sez. Lavoro, Sent., 19458 del 20.07.2018).

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Il comportamento tenuto dal dipendente che scrive insulti via social network contro la propria azienda è giusta causa di licenziamento?

La risposta si trova in una recente sentenza della Corte di Cassazione.

Si tratta del caso di una lavoratrice che aveva scritto nella propria bacheca facebook messaggi offensivi contro la propria azienda (“mi sono rotta i c…. di questo posto di m… e per la proprietà”). Oltre a ciò aveva prospettato il ricorso a malattie in caso dissensi di vedute con l’azienda.

Venuta a conoscenza di tale comportamento, l’azienda avviava una procedura disciplinare, terminata con il licenziamento per giusta causa.

La lavoratrice impugnava il licenziamento, portando il caso davanti ai Giudici.

Nel corso del giudizio l’azienda aveva dimostrato gli insulti via social network, a cui si aggiungeva l’intento di ricorrere a malattie in caso di dissensi con l’azienda. Non è risultato invece dimostrato dalla lavoratrice che la condotta tenuta fosse legata ad una situazione di stress da lavoro.

I Giudici hanno ritenuto che l’aver scritto insulti via social network contro la propria azienda integrasse il delitto di diffamazione. Comportamento ritenuto aggravato dal fatto che la lavoratrice aveva prospettato il ricorso a malattie in caso di dissensi con l’azienda.

In particolare, circa gli insulti via social network, i Giudici hanno ritenuto che tali messaggi hanno la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che lo strumento utilizzato consente di raggiungere un gruppo vasto di aderenti al social network.

Ciò comporta che, se i messaggi consistono in insulti offensivi nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione. In quanto tale, il comportamento diretto contro la propria azienda giustifica il licenziamento per giusta causa.

Configura giusta causa di licenziamento la condotta del dipendente che posta insulti via social network contro la propria azienda.

I Giudici hanno quindi dato ragione all’azienda ed hanno confermato la legittimità del licenziamento (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 08-02-2018) 27-04-2018, n. 10280).

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