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La indennità di maternità può essere pignorata?

Esaminiamo i vari aspetti della questione.

Il legislatore prevede, a tutela dei creditori, che questi,  ottenuti i necessari provvedimenti del Giudice, possano pignorare beni e/o crediti del proprio debitore.

Una forma particolare di pignoramento è il pignoramento “presso terzi” per mezzo del quale si aggredisce lo stipendio del debitore.

Questa forma di esecuzione è definita appunto “presso terzi” perché viene eseguite per il tramite di un soggetto terzo, il datore di lavoro.

Il datore di lavoro dapprima fa una dichiarazione circa l’esistenza o meno del rapporto.

In un secondo momento attua il provvedimento del Giudice, effettuando le trattenute al dipendente ed il relativo pagamento al creditore.

La legge, tuttavia, prevede dei limiti applicabili a tale tipologia di pignoramento.

I limiti di pignorabilità della indennità di maternità

In particolare l’art. 545 cpc prevede che non possano essere pignorati:

  • i crediti alimentari, tranne che per cause di alimenti,
  • i crediti aventi ad oggetto sussidi di grazia o di sostentamento a persone comprese nell’elenco dei poveri, oppure sussidi dovuti per maternità, malattie o funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o da istituti di beneficienza.

Da una rapida lettura di tale norma, sembra emergere quindi che le indennità di maternità non possano essere oggetto di pignoramento.

Tuttavia, si ritiene necessario introdurre alcune precisazioni in merito.

Le somme erogate in occasione della “maternità” si distinguono in:

  • somme erogate dall’Inps (direttamente o per il tramite del datore di lavoro), che costituiscono una vera e propria indennità, in quanto tale non pignorabile ai sensi dell’art. 545 cpc;
  • somme erogate dal datore di lavoro, che costituiscono una vera e propria retribuzione, in quanto tale pignorabile nel limite di 1/5 previsto dalla legge.

Bisogna comunque sempre tenere in considerazione che, anche quando sarebbe possibile assoggettare tali somme a pignoramento, al debitore dev’essere garantito il diritto a percepire una “somma minima vitale”, ritenuta indispensabile per consentirgli di vivere dignitosamente.

E’ necessario valutare ogni singolo caso

All’esito di questa analisi, emerge quindi come la pignorabilità o meno della indennità di maternità vada valutata caso per caso, dopo aver esaminato la documentazione e fatto i conteggi delle somme.

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Il fondo patrimoniale è un istituto previsto dal nostro legislatore che consente di destinare un patrimonio al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.

fondo-patrimoniale

Il patrimonio può essere costituito da denaro e/o da beni mobili e/o immobili.

L’art. 167 del Codice civile prevede che il fondo patrimoniale possa essere costituito da “ciascuno o ambedue i coniugi, per atto pubblico” o anche da “un terzo, anche per testamento“.

Se costituito dai coniugi, questi vi possono provvedere sia al momento del matrimonio che in un momento successivo.

Il fondo deve essere annotato sull’atto di matrimonio, così da essere valido nei confronti dei terzi.

Se vi fanno parte dei beni immobili o mobili registrati (per esempio, un veicolo), è necessaria la trascrizione nei registri (ad esempio, in conservatoria o al PRA).

Quale è la finalità della costituzione del fondo patrimoniale?

Tutelare i beni inseriti nel fondo dall’aggressione dei creditori.

I beni inseriti nel fondo patrimoniale non possono essere soggetti ad esecuzione forzata.

Nel codice civile è anche precisato che la esecuzionenon può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei alla famiglia“.

Ciò detto, va precisata anche un’altra cosa.

Non sempre il fondo patrimoniale è considerato valido.

Se non vi sono reali bisogni della famiglia, il fondo patrimoniale può essere inefficace

Al riguardo, infatti, si è pronunciata in questi giorni anche la Suprema Corte.

Con l’ordinanza n. 2820 del 06 febbraio 2018, la Corte di Cassazione ha rilevato quanto segue:

secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia, anche qualora effettuata da entrambi i coniugi, non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge; essa configura, dunque, un atto a titolo gratuito.

Tale atto è suscettibile di esser dichiarato inefficace a norma della L. Fall., art. 64, salvo che si dimostri l’esistenza in concreto di una situazione tale da integrare, nella sua oggettività, gli estremi del dovere morale e il proposito del solvens di adempiere unicamente a quel dovere mediante l’atto in questione (per tutte Cass. n. 1902913, Cass. n. 6267-05, Cass. n. 18065-04“.

Nel caso esaminato, la Corte evidenzia che “ che i figli della coppia erano al momento (della costituzione del fondo) già tutti adulti e titolari di proprie attività imprenditoriali, e che l’atto – come peraltro ammesso dalla stessa ricorrente – non aveva riguardato solo la casa familiare ma anche un terreno edificabile e un intero stabile composto da diversi appartamenti e magazzini locati a terzi”.

Tale circostanza ha fatto ritenere alla Corte che mancasse la prova della necessità di fronteggiare i bisogni della famiglia.

In concreto, la Corte ha quindi ritenuto che la costituzione del fondo patrimoniale fosse stata un escamotage per pregiudicare i creditori.

Il fondo patrimoniale, quindi, è stato dichiarato inefficace.

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L’ assegnazione della casa coniugale è uno dei provvedimenti adottati dal Giudice nei giudizi di separazione e divorzi e, solitamente, viene disposta a favore del genitore presso il quale sono collocati i figli.

assegnazione

Ciò per consentire ai figli, che con la separazione/divorzio già subiscono forti cambiamenti nella loro vita e nelle loro abitudini, di non dover modificare anche l’habitat familiare e le abitudini domestiche.

Il provvedimento di assegnazione della casa coniugale può essere trascritto nel Registro della Conservatoria Immobiliare e, in tal caso, ha effetto non solo nei confronti dell’altro coniuge, ma anche rispetto a tutti coloro che acquistano diritti sull’immobile.

Tuttavia, è bene precisare che, alla luce dell’attuale normativa, tale opponibilità può essere fatta valere dal coniuge assegnatario solo nei confronti di chi acquista diritti sull’immobile dopo che sia stato trascritto il provvedimento di assegnazione.

Non può invece essere opposto nei confronti di chi ha acquisito tali diritti prima della trascrizione del provvedimento di assegnazione.

Questa la decisione presa dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 7776 del 20.04.2016.

L’ipoteca conta di più, se iscritta prima del provvedimento di assegnazione, anche se il pignoramento è successivo

La questione posta alla Suprema Corte era la seguente:

se potesse ritenersi opponibile il provvedimento di assegnazione della casa coniugale trascritto in data anteriore al pignoramento, ma successiva all’iscrizione ipotecaria presa a favore del creditore procedente.

La decisione della Corte è stata di inopponibilità.

Ha infatti affermato la Cassazione che la trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa coniugale non è opponibile al creditore ipotecario che abbia iscritto la sua ipoteca sull’immobile prima della trascrizione del detto provvedimento.

Con la conseguenza che il creditore ipotecario può chiedere la vendita all’asta dell’immobile come libero, in quanto il diritto del coniuge assegnatario trascritto dopo l’iscrizione dell’ipoteca non può pregiudicare i diritti del titolare della garanzia reale.

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Modifica mantenimento: con la sentenza n. 19746 del 9.8.2017 la Suprema Corte decide un altro caso pratico in merito a tale questione.

modifica mantenimentoIl caso esaminato riguarda la richiesta del coniuge (nella fattispecie, la moglie) di ottenere un aumento dell’assegno di mantenimento rispetto a quanto riconosciutole in sede separazione.

La richiesta della donna era stata formulata allorquando il marito aveva chiesto (e ottenuto) la modifica delle condizioni di separazione con riguardo all’ammontare degli assegni di mantenimento corrisposti a favore dei figli.

Il marito, infatti, era stato autorizzato a versare un minor importo per il mantenimento a favore dei figli, divenuti economicamente indipendenti.

La donna rilevava quindi che le condizioni economiche del marito erano migliorate da quando lo stesso aveva ottenuto modifica mantenimento.

Sulla base di tale presunto miglioramento, pertanto, riteneva dovuto un aumento automatico delle somme che il marito corrispondeva a titolo di mantenimento a suo favore.

La riduzione dell’assegno di mantenimento dei figli non determina l’automatico aumento dell’assegno di mantenimento previsto a favore del coniuge

La Corte di Cassazione, ritenendo corretto e condivisibile quanto già deciso dalla Corte d’Appello, ha respinto le domande della donna.

Ha rilevato, infatti, la Suprema Corte che “le obbligazioni verso i figli e quelle verso la moglie operano su piani differenti e non può la caduta o la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre” .

Nel motivare la propria decisione, la Corte di Cassazione ha poi affermato che:

In particolare, per ciò che concerne l’assegno di mantenimento in favore del coniuge più debole economicamente, deve aversi riguardo alla circostanza per cui la misura dell’assegno, precedentemente stabilita o concordata, fosse o meno condizionata dal concorrente onere economico nei confronti dei figli e quindi se risultasse o meno sufficiente a integrare di per sé la previsione normativa che impone la corresponsione dell’assegno per il mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri.

Circostanze che spetta a quest’ultimo dedurre e provare perché altrimenti deve presumersi che la misura dell’assegno corrispondesse alla prescritta necessità di cui all’art. 156 c.c. e non risultasse compressa dal concorrente onere di contribuire al mantenimento dei figli.“.

Presupposto per la modifica mantenimento, quindi, è sempre l’insorgere di circostanze nuove rispetto a quelle esistenti al momento della pronuncia originaria.

E il compito di dedurre e provare le circostanze nuove è a carico della parte che chiede la modifica.

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Il diritto di visita è spesso considerato dai genitori, separati o divorziati, un diritto previsto a loro favore.

diritto di visitaDi conseguenza accade che, nel caso in cui tale diritto venga in qualche modo ostacolato, il genitore che “viene privato” del diritto di visita decida di non rispettare l’obbligo di mantenimento.

In altre parole: “Se non posso vedere mio figlio, non spetta a me mantenerlo“.

Tuttavia, il diritto di visita non è collegato all’obbligo di mantenimento.

Questo perché entrambi sono da considerarsi diritti a favore  del minore e obblighi a carico del genitore e, in quanto tali, vanno rispettati dal genitore.

Va precisato, infatti, che il diritto di visita è spesso ritenuto dal genitore un diritto previsto per sé.

Invece, è previsto innanzitutto per tutelare il minore e garantire che lo stesso mantenga, con entrambi i genitori, un rapporto equilibrato.

Se per qualche motivo il diritto di visita non viene rispettato, quindi, è in primis il minore a subire un pregiudizio.

E di certo, il genitore che sospende il mantenimento per cercare di ottenere di nuovo l’esercizio del diritto di visita, non diminuisce il pregiudizio subito dal minore, ma arreca ulteriore danno, morale e materiale, allo stesso.

Il genitore quindi, anche se gli viene impedito il diritto di visita e per questo subisce anch’esso un pregiudizio per l’impossibilità di avere un rapporto con i figli minori, non può “difendersi” arrecando lui stesso un ulteriore danno ai figli.

Vietato sospendere il mantenimento per sollecitare il ripristino del diritto di visita

Questo è il tema affrontato dalla Cassazione Civile nel giudizio definito con la sentenza n. 21688 del 19.09.17.

Il caso riguardava un ex marito che aveva sospeso il pagamento dell’assegno di mantenimento a favore delle figlie per sollecitare il ripristino del proprio diritto di visita, che gli veniva impedito.

La Suprema Corte ha ben rilevato che: “tra l’obbligo del coniuge separato di consentire la visita dei figli all’ex marito, e l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere l’assegno di mantenimento, non vi è alcun sinallagma, di talchè è arbitraria, e non idonea a far venir meno il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la “sospensione” del pagamento dell’assegno divorzile, adottata unilateralmente quale strumento di coazione indiretta per indurre l’ex coniuge al rispetto degli impegni concernenti la frequentazione dei figli”.

Puoi trovare altre informazioni sul diritto di visita in questi articoli: “Affidamento condiviso: diritti e doveri” ; “Il diritto dei nonni di frequentare i nipoti

 

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Separati in casa: oggi accade sempre più di frequente.

separati in casaE’ considerata da molti coniugi come una soluzione a metà strada tra il matrimonio e la separazione “legale”.

I motivi della scelta sono i più diversi: i problemi economici, il bene per i figli, le apparenze, le questioni emotive.

Il risultato, tuttavia, è contrario al diritto.

Il Tribunale non può autorizzare a vivere “separati in casa”

Questa la conclusione alla quale è giunto il Tribunale di Como con la pronuncia della sentenza del 6 giugno 2017.

Nell’esaminare il ricorso per la separazione presentato congiuntamente da due coniugi, il Tribunale si è trovato ad affrontare la questione.

I due coniugi, infatti, chiedevano che il Tribunale, pur pronunciando la separazione “legale”, li autorizzasse a proseguire -a tempo indeterminato- la convivenza sotto lo stesso tetto.

Queste le motivazioni portate dai coniugi a sostegno della richiesta di poter vivere separati in casa:

il fatto che da anni i coniugi già vivevano separati in casa;

la volontà di entrambi di non allontanarsi dalla casa familiare, in comproprietà;

la presenza di locali idonei a consentirgli di vivere separati in casa;

la volontà di preservare le risorse economiche a favore del figlio maggiorenne, studente;

non precisati problemi di salute della moglie;

al contempo, vi era anche la volontà reciproca di svincolarsi dal dovere di fedeltà.

Il Tribunale ha ritenuto di non poter accogliere tale richiesta.

Il Giudice ha infatti precisato che, sul piano personale, le parti hanno facoltà di comportarsi come meglio credono.

Se, pertanto, desiderano proseguire una convivenza formale, non gli può essere impedito.

Non è tuttavia consentito, nel nostro ordinamento, attribuire a tale “desiderio” il riconoscimento di vero e proprio diritto.

L’intollerabilità della convivenza: presupposto della separazione “legale” che contrasta con la volontà di continuare a convivere “sotto lo stesso tetto”

Alla base dell’istituto della separazione, infatti, vi dev’essere una situazione di intollerabilità della convivenza.

Chiedendo di essere autorizzati a vivere “separati in casa”, invece, i coniugi di fatto chiedono al Giudice di autorizzare una proroga della convivenza.

Non può quindi essere accolta “la pretesa di attribuire, con un provvedimento di omologa, riconoscimento giuridico, con i conseguenti effetti della separazione coniugale, ad un accordo privatistico che regolamenti la condizione di “separati in casa””.

Peraltro, a lungo andare, la convivenza da “separati in casa” potrebbe anche portare ad un aumento dei conflitti e, ancor più grave, al danneggiamento per i figli.

Per questo motivo, è sempre opportuno valutare la situazione in cui ci si trova con l’aiuto di un esperto.

Solo in questo modo si potrà decidere con consapevolezza quale alternativa – fra quelle possibili – è meglio scegliere.

 

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comodato-casa-e-crisi-coniugaleIl comodato è un contratto, disciplinato dal codice civile, in forza del quale “una parte (comodante) consegna all’altra (comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta“.

Il comodato è normalmente gratuito.

In relazione alla durata, se non è pattuito un termine per la restituzione del bene, chi riceve il bene in comodato è tenuto a restituirlo non appena gli viene richiesto da chi gli ha concesso l’utilizzo del bene (c.d. concordato “precario”).

Spesso il contratto di comodato viene utilizzato in ambito familiare.

Ad esempio, accade che i genitori concedano una casa di loro proprietà in comodato al figlio ed alla sua nuova famiglia, senza determinazione di tempo.

Poiché in questo caso il comodato è “precario” (senza determinazione di tempo), l’immobile dovrebbe essere riconsegnato al proprietario che ne faccia semplice richiesta.

La questione, invece, è più complessa.

La Cassazione si è infatti trovata ad esaminare il caso di genitori/proprietari di un appartamento che hanno chiesto la restituzione del bene dato in comodato al figlio ed alla nuora.

La richiesta di restituzione era dovuta al fatto che la nuova famiglia stava affrontando una crisi coniugale ed i genitori/proprietari volevano tutelare il proprio patrimonio (l’appartamento) dalla suddetta crisi.

Tuttavia, la Corte di Cassazione, con la propria sentenza n. 13.716 del 31 maggio 2017, ha ribadito che, quando l’immobile è stato concesso in uso alla nuova famiglia, anche se non è prevista una durata, il comodato non può ritenersi un normale “comodato precario” ed il proprietario non può quindi pretendere la restituzione in forza della semplice richiesta.

Infatti, sebbene non sia stata determinata la durata del contratto di comodato, è evidente che lo stesso è vincolato dalla speciale “destinazione d’uso”.

La casa oggetto di comodato, infatti, deve ritenersi concessa in uso proprio per soddisfare le esigenze abitative di un nucleo familiare (quello del figlio e della sua nuova famiglia).

Per la Suprema Corte, questa “destinazione d’uso” prevale sulla mancanza del termine di durata.

La destinazione dell’immobile ad esigenze abitative di un nucleo familiare supera il diritto del proprietario alla restituzione dell’immobile concesso in comodato

Con la conseguenza che i genitori comodanti sono tenuti a consentire la continuazione del godimento anche in presenza di una crisi coniugale ed oltre la crisi coniugale stessa.

Unica eccezione, il sopraggiungere di un urgente e imprevisto bisogno del comodante.

In tal caso, spetterà al Giudice valutare la situazione e decidere se attribuire prevalenza ai bisogni del comodante o alle esigenze di tutela della nuova famiglia e della prole.

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modifica-mantenimento-figlio-maggiorenneLegittimato a richiedere la corresponsione e l’eventuale modifica dell’ assegno di mantenimento per il figlio, normalmente, è il genitore con il quale il figlio convive.

Ma se il figlio è maggiorenne e non convive con nessune dei due genitori?

Chi ha diritto a “gestire” l’ assegno di mantenimento?

L’ipotesi dell’ assegno di mantenimento a favore dei figli maggiorenni, non economicamente indipendenti, è un’ipotesi eccezionale che trova puntuale regolamentazione all’art. 337-septies del Codice Civile.

Tale norma prevede che, se il Giudice dispone il pagamento dell’ assegno di mantenimento a favore del figlio maggiorenne non economicamente indipendente, può prevedere che sia versato “direttamente all’avente diritto” e, quindi, al figlio.

In tal caso, la gestione dell’ assegno di mantenimento spetta esclusivamente al figlio.

La gestione spetta al figlio se maggiorenne e titolare, in via diretta ed esclusiva, del diritto al mantenimento

Con la conseguenza che la domanda giudiziale volta ad ottenere la modifica (aumento o riduzione) dell’importo dovuto a titolo di mantenimento dovrà essere presentata rispettivamente dal figlio contro il genitore o viceversa.

Nessun ruolo potrà avere l’altro genitore.

In tal senso, si è espresso di recente anche il Tribunale di Torino che, con provvedimento collegiale dell’11.04.2016, ha respinto la domanda di revoca dell’ assegno di mantenimento corrisposto ai figli maggiorenni formulata dal padre – tenuto al versamento – nei confronti della madre.

Il Tribunale evidenzia, infatti, che il padre avrebbe dovuto formulare la domanda nei confronti dei propri figli, i quali, maggiorenni e non conviventi con nessuno dei due genitori, hanno sempre percepito direttamente l’ assegno di mantenimento.

Diverso, invece, è il caso in cui i figli sono minorenni o lo erano quando è stato disposto il pagamento dell’assegno di mantenimento.

In tal caso, infatti, è il genitore convivente ad essere individuato come creditore dell’assegno, nel senso che spetta al genitore la gestione dello stesso in favore del figlio.

Con la conseguenza che sarà il genitore – e non il figlio minorenne – ad essere legittimato, anche per il figlio, a domandare la modifica ovvero a resistere alla domanda di modifica.

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aumento dell'assegno di mantenimentoQuando sorge il diritto all’aumento dell’assegno di mantenimento?

L’assegno di mantenimento per il coniuge economicamente più debole può essere sempre soggetto ad una revisione, sia in aumento che in riduzione, quando cambiano le condizioni che avevano indotto il Giudice a determinarlo.

Ciò significa, per esempio che il coniuge onerato dell’assegno di mantenimento, il quale, per ragioni indipendenti dalla propria volontà, subisca un netto peggioramento della propria condizione economica, può sempre richiedere al Giudice una revisione del contributo, in modo da adeguarlo alla diminuzione della propria capacità contributiva.

L’aumento dell’assegno di mantenimento è dovuto ogni volta che migliorano le condizioni economiche del coniuge che vi è tenuto?

L’aumento dell’assegno di mantenimento può essere certamente richiesto quando aumentano le esigenze economiche dei figli, ovvero a fronte di un grave peggioramento delle condizioni economiche del coniuge che ne è beneficiario.

Ma vale sempre anche il contrario?

Il sensibile miglioramento delle condizioni economiche di chi è tenuto al pagamento fa nascere spesso richieste di aumento dell’assegno di mantenimento da parte dell’altro.

Non sempre tuttavia tali richieste sono fondate.

E’ tipico il caso della vincita alla lotteria o al superenalotto.

Il fortunato vincitore della lotteria, non dovrà subire l’aumento dell’assegno di mantenimento in favore dell’ex coniuge.

Ma perché no?

La vincita alla lotteria è un evento occasionale e straordinario che non ha nulla a che vedere con il tenore di vita goduto dalla famiglia durante il matrimonio, né trova il proprio fondamento nell’attività svolta dal coniuge vincitore durante la convivenza.

La Corte di Cassazione si è pronunciata in tal senso, escludendo la possibilità che i miglioramenti che hanno origine da eventi autonomi, non collegati alla situazione ed alle aspettative maturate nel corso del matrimonio, possano dar luogo all’aumento dell’assegno di mantenimento cui il coniuge che ne ha beneficiato è già tenuto.

Tali eventi hanno infatti carattere di eccezionalità, poiché derivano da circostanze del tutto occasionali e imprevedibili e, non trovando fondamento nel rapporto matrimoniale ormai cessato, non possono influire sul rapporto economico tra gli ex coniugi.

Al contrario, se l’arricchimento del coniuge è in effetti la naturale e prevedibile conseguenza dell’attività già avviata nel corso del matrimonio, l’ex coniuge avrà diritto all’aumento dell’assegno di mantenimento.

Per esempio, l’imprenditore che durante il matrimonio getta le basi dell’attività e ne raccoglie i frutti con un sensibile aumento del proprio reddito solo dopo la separazione, farà probabilmente sorgere il diritto da parte dell’ex coniuge all’aumento di un assegno di mantenimento determinato in un momento in cui ancora l’attività non era fiorita.

L’avvocato divorzista è spesso chiamato a rispondere a questioni simili, ed altrettanto spesso le circostanze del singolo caso sono tanto importanti da poter fare la differenza tra l’esistenza di un diritto o la sua negazione.

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mensa-scolasticaE la mensa scolastica?

Accade spesso che i genitori, separati o divorziati, discutano di quali sono le spese straordinarie che quindi devono essere pagate “pro quota” oltre alle somme dovute con l’assegno di mantenimento.

Oggetto di discussione, fra gli altri, è anche il costo della mensa scolastica che ormai, sempre più di frequente, è necessaria se i figli hanno un orario scolastico che si prolunga anche nel pomeriggio.

Spese ordinarie e straordinarie

Va innanzitutto fatta una precisazione: la giurisprudenza prevalente e costante è nel senso di qualificare come “ordinarie” le spese atte a soddisfare i bisogni della quotidianità del figlio, e “straordinarie” quelle destinate a fronteggiare le esigenze conseguenti ad eventi imprevedibili o eccezionali.

Sulla base di tale precisazione, appare evidente che l’alimentazione è un’esigenza quotidiana dei figli e, quindi, deve ritenersi ricompresa nell’assegno di mantenimento.

Se, infatti, il minore consuma il pasto del mezzogiorno presso la mensa scolastica anziché presso la propria abitazione, ciò non può comportare, a carico del genitore tenuto a corrispondere l’assegno di mantenimento, l’obbligo di versare una somma ulteriore.

Consumato a casa o in mensa, il pasto è un’esigenza quotidiana del minore

In tal senso, si sono pronunciati i Giudici di vari Tribunali.

Ad esempio, il Tribunale di Milano che, con decreto del 27.11.2013, così ha deciso: “La mensa scolastica non riveste alcuna connotazione straordinaria, essendo solo una modalità sostitutiva della voce “vitto” domestico già compresa in qualsiasi assegno mensile”.

Anche il Tribunale di Novara ha stabilito che: “Giova precisare che nel concetto di spese scolastiche straordinarie non rientrano i buoni mensa che costituiscono mera sostituzione del pasto casalingo rientrante nel mantenimento ordinario” (Trib. Novara, Sent. del 26.03.2009).

Medesimo orientamento esprime anche il Tribunale di Roma (sez. I, sentenza del 09.10.2009) che ha ritenuto fondata ed ha accolto l’opposizione presentata dal padre contro le richieste della madre che pretendeva il pagamento ulteriore delle spese della mensa scolastica.

Il Tribunale di Roma afferma: “difetta nella specie il requisito della straordinarietà della spesa, dovendosi la spesa per la mensa scolastica generalmente ricondurre (ove, cioè, non espressamente prevista a parte) nella quantificazione dell’assegno ordinario mensile poiché relativa al vitto quotidiano, primaria costante necessità dei minori da soddisfare, indipendentemente dal luogo (casa o scuola). Il principio è ancor più pertinente nella specie trattandosi di spesa per una mensa di scuola pubblica, il cui importo è notevolmente inferiore al corrispondente ammontare necessario per assicurare a casa la soddisfazione della stessa esigenza”.

Tuttavia, bisogna evidenziare che, come emerge anche da quest’ultima pronuncia, se le parti concordano espressamente che il costo della mensa scolastica sia “ulteriore” rispetto all’assegno di mantenimento, le spese relative alla mensa scolastica andranno ad aggiungersi alla somma corrisposta con l’assegno di mantenimento.

Il Tribunale di Bergamo ritiene le spese della mensa “non coperte dall’assegno di mantenimento

Questo è l’orientamento, ad esempio, del Tribunale di Bergamo che definisce espressamente le spese della mensa come “non coperte dall’assegno periodico“.

I Giudici bergamaschi, pertanto, inseriscono espressamente la voce “mensa scolastica” nei propri provvedimenti identificandola come “spese scolastiche straordinarie per cui non è richiesto il preventivo accordo fra i genitori”.