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separazione consensualeLa separazione consensuale è la procedura che la legge prevede per consentire ai coniugi di separarsi legalmente di comune accordo.

Il presupposto della separazione consensuale, quindi, è che i coniugi trovino un accordo per regolamentare la propria vita da separati.

I coniugi devono concordare le modalità di affidamento condiviso e il mantenimento dei figli minori, l’assegnazione della casa coniugale e la divisione dei beni comuni.

La parte più delicata è dunque proprio la trattativa tra i coniugi per definire le condizioni della separazione.

Poiché gli accordi presi in questa fase saranno vincolanti per i coniugi, è importante avvalersi della consulenza e dell’assistenza di un avvocato divorzista, che consenta agli interessati di comprendere pienamente i propri diritti ed i propri doveri.

Con la separazione consensuale è inoltre possibile definire anche i rapporti patrimoniali tra i coniugi agevolandosi dell’esenzione fiscale.

Ogni trasferimento, anche immobiliare, deciso dai coniugi in sede di separazione consensuale, infatti, gode di una totale esenzione fiscale.

Ma basta l’accordo dei coniugi a dare efficacia alla separazione consensuale?

In realtà l’accordo dei coniugi è solamente il presupposto per la separazione consensuale; presupposto essenziale ma non è sufficiente.

Affinché i coniugi possano essere legalmente separati, infatti, è necessario che venga posta in essere una procedura volta ad ottenere l’omologazione della separazione consensuale da parte del Tribunale competente.

I termini dell’accordo raggiunto dovranno essere quindi riportati in un apposito ricorso che sarà depositato nell’apposita cancelleria del Tribunale dell’ultima residenza comune dei coniugi.

Il Tribunale fisserà poi un’udienza, alla quale dovranno partecipare entrambi i coniugi per confermare le condizioni di separazione già raccolte nel ricorso.

Dal giorno dell’udienza decorrerà quindi il termine semestrale, scaduto il quale i coniugi separati avranno facoltà di divorziare.

La separazione consensuale, dunque, a differenza della separazione giudiziale, consente ai coniugi di separarsi in tempi relativamente brevi, senza rovinarsi economicamente, definendo i rapporti patrimoniali e, soprattutto in presenza di figli minori, gettando le basi per un sereno rapporto.

Si tratta quindi spesso solo di scegliere la via più semplice e rapida per separarsi ed iniziare una nuova vita.

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affidamento condivisoAffidamento condiviso: un principio sancito nel nostro ordinamento e da cui derivano, per i genitori, non solo diritti, ma anche doveri.

Tale principio, infatti, come anche gli altri previsti dalle norme, è posto non a tutela dei genitori, ma nel preminente interesse del minore.

Minore che, secondo quanto previsto dal nostro ordinamento, ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori.

Per garantire questo equilibrio, alla cui base troviamo l’ affidamento condiviso, emerge dalle nostre norme anche un altro principio fondamentale, quello della bigenitorialità.

Entrambi i genitori si devono presumere idonei ad esercitare le loro responsabilità ed a divenire affidatari e/o collocatari dei figli.

I principi di affidamento condiviso e bigenitorialità

Dai principi di affidamento condiviso e bigenitorialità, che come detto tutelano l’interesse del minore, derivano per i genitori diritti ma, contemporaneamente, anche doveri.

Il dovere di rispettare le esigenze affettive del proprio figlio e garantire, per quanto possibile, una crescita equilibrata e serena.

Facciamo un esempio e pensiamo al diritto di visita.

Quando il Giudice dispone l’ affidamento condiviso del minore, normalmente colloca il bambino presso uno dei genitori e disciplina il diritto di visita relativamente all’altro genitore.

Ciò consente al minore di avere una certa stabilità e anche di poter trascorre del tempo con entrambi i genitori.

Ma cosa succede se il genitore viola continuamente il diritto (o meglio, il dovere) di visita?

Il rischio può essere quello di perdere l’ affidamento condiviso, poiché viene meno alle proprie responsabilità genitoriali.

Questa è proprio la conclusione alla quale sono giunte sia la Corte d’Appello che la Corte di Cassazione (Sent. n. 977/2017), la quale ha confermato la sentenza impugnata dalla madre.

I Giudici di entrambi i gradi di giudizio hanno rilevato, infatti, che “l’odierna ricorrente, nel corso di più di un anno, non aveva mai fatto ritorno in Italia, nemmeno per il numero minimo di incontri (tre) indicati dal consulente tecnico“.

Inoltre, gli unici contatti avuti dalla madre con il figlio erano avvenuti tramite cellulare o skype.

Tale modalità di comunicazione, tuttavia, non è stata ritenuta idonea a surrogare le visite del genitore assente.

Tale situazione è stata ritenuta pregiudizievole per l’interesse del minore.

Per tale motivo, la Corte d’Appello – con sentenza successivamente confermata in Cassazione – ha così disposto la revoca dell’ affidamento condiviso e la pronuncia di affidamento esclusivo a favore del padre, presso il quale il minore era peraltro già collocato.

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In caso di separazione o divorzio, oltre all’assegno di mantenimento per i figli, il Giudice può prevedere il pagamento di un assegno anche fra gli ex coniugi.

Capita spesso che, nel prendere questa decisione, il Giudice conceda o meno l’assegno a seconda della durata del matrimonio.

Quindi, se il matrimonio è stato “breve”, molto probabilmente non concederà l’assegno all’ex coniuge che lo richieda.

Tuttavia, così facendo, il Giudice decide in modo non del tutto corretto.

Il Giudice deve valutare l’adeguatezza dei redditi e non la durata del matrimonio

Infatti, la legge che disciplina il divorzio (Legge n. 898/1970) prevede espressamente che i presupposti che il Giudice deve valutare siano due:

che il richiedente l’assegno “non abbia redditi adeguati” e “non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive”.

Solo questi, quindi, devono essere i criteri considerati dal Giudice.

E non altre circostanze, ad esempio la durata del matrimonio, della quale il Giudice può “tenere conto”, ma solo per decidere in merito all’ammontare dell’assegno, una volta che abbia ritenuto di concederlo.

Con la conseguenza che spetta al Giudice fare ogni valutazione in merito e decidere caso per caso se accogliere la richiesta, ma solo sulla base dell’adeguatezza dei redditi.

Senza che al Giudice sia consentito di utilizzare, nella propria valutazione, altri e diversi criteri, quale ad esempio la durata del matrimonio.

Questo è quanto ribadito anche dalla Corte di Cassazione con la propria sentenza n. 275 del 10.01.2017.

Nel caso esaminato, sia il Tribunale in prima battuta, che la Corte d’appello in un secondo momento, avevano respinto la domanda di assegno formulata dal marito a carico della moglie.

La Suprema Corte ha ritenuto che i Giudici abbiano commesso un errore, poiché hanno fondato la loro decisione esclusivamente sulla durata del matrimonio.

Per tale motivo, il giudizio è stato ora rinviato dinanzi alla Corte d’Appello, la quale dovrà ora decidere nuovamente sul diritto o meno dell’ex marito ad ottenere il pagamento di un assegno da parte della moglie.

Decisione che dovrà essere presa, questa volta, valutando esclusivamente l’adeguatezza o meno dei redditi dei coniugi.

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Avvocato Elena SestiniSepararsi serenamente è solo una chimera o un un obiettivo realizzabile?

La separazione è sempre un momento difficile, non solo per i coniugi, ma per l’intera famiglia.

Da avvocato seguo spesso situazioni rese difficili ed inasprite dalle stesse tensioni che hanno originato la separazione.

Eppure da fuori sembra semplice: se i coniugi si separano proprio per tornare a vivere sereni, perché continuano a riproporsi l’un l’altro le stesse dinamiche che li hanno resi infelici?

La separazione dovrebbe costituire uno spartiacque tra la vita coniugale ed una nuova vita.

Ma quali sono i punti critici che dovranno essere sciolti per consentire ai coniugi di separarsi serenamente?

Quando i coniugi non hanno  figli, solitamente separarsi serenamente è più facile.

Una volta diviso il patrimonio, la vita riprende, sia pure con altri ritmi.

Nuova casa, nuove abitudini, nuovi rapporti e magari anche nuovi amici.

Rimane un unico strascico possibile: l’assegno di mantenimento.

Spesso l’assegno di mantenimento per il coniuge più debole resta l’unico filo sottile che continua a tenere legati i coniugi separati senza figli.

L’assegno di mantenimento al coniuge separato è, quindi, su entrambi i fronti, un tema caldo, che dovrà essere ben ponderato da ciascun coniuge con il proprio avvocato e costituirà in certi casi proprio il punto critico da sciogliere per consentire ai coniugi di separarsi serenamente.

La legge offre soluzioni alternative all’assegno periodico solo in occasione del divorzio, nulla vieta tuttavia di poter modulare il diritto al ricevimento dell’assegno con delimitazioni temporali ovvero legate ad un’occasione di lavoro.

La soluzione migliore, non solo consentirà ai coniugi di separarsi serenamente ma, probabilmente, anche di arrivare ad un sereno divorzio.

Quando però i coniugi hanno formato una famiglia, i figli sono certamente i primi a risentire della separazione ed a renderla quindi ancora più difficile per entrambi i genitori.

Risolvere i problemi legati alla gestione dei figli , infatti, può consentire di separarsi serenamente.

Sembra facile, vero?

In realtà è normale  che i coniugi, ancora troppo focalizzati ciascuno sulle proprie rivendicazioni, non siano in grado di spostare l’attenzione da sé ai figli.

Sarà quindi l’avvocato a dover focalizzare l’attenzione dei coniugi in questa direzione per far prevalere in loro il sentimento genitoriale.

In verità, è la legge stessa che indica le linee guida per la gestione dei figli dopo la separazione dei genitori e che invita i coniugi a privilegiare, per quanto possibile, la continuità per i figli.

In tal senso si devono leggere le norme sull’assegnazione della casa al coniuge che prevalentemente vivrà con i figli e sempre in tal senso viene determinato l’assegno di mantenimento per i figli da parte dell’altro genitore.

Se poi il punto critico della separazione sarà proprio la decisione di chi dovrà vivere con i figli, un buon suggerimento è quello di considerare nuovamente il criterio della continuità.

Quale dei due genitori è stato nel corso della convivenza il genitore di riferimento per i figli?

Quale dei due genitori, cioè, si è sempre occupato dei figli in modo prevalente rispetto all’altro?

Ancor più semplicemente: chi si è sempre occupato di svegliare i bambini al mattino, di preparare loro la colazione, di prepararli per l’asilo o la scuola e magari anche di portarceli? Chi parla con le maestre? Chi gestisce i rapporti con gli amichetti ed i loro genitori? Chi compra loro vestiti e scarpe? Chi porta i figli dal medico quando sono malati? Chi somministra loro le medicine? Chi li lava, li cambia, li mette a letto la sera?

Salvo rari casi, in ogni famiglia, sebbene qualche compito sia distribuito, uno solo è il genitore di riferimento.

Ciò non significa che l’altro genitore sia meno importante, anzi, la sua presenza nella vita dei figli anche dopo la separazione è tutelata dalla legge e dovrà essere resa effettiva.

Spesso sarà proprio l’avvocato a dover aiutare l’altro genitore a dare il giusto ascolto alle esigenze dei figli ed a riconoscere, quindi, il ruolo dell’altro genitore nella loro vita.

In merito devo dire che, per esperienza, non sorgono grandi problemi in tal senso quando il genitore di riferimento è la mamma, perché i padri sono generalmente disposti a riconoscerle il proprio ruolo.

Non sempre accade lo stesso nei – certo più rari – casi in cui il genitore di riferimento è il papà.

Sebbene in questi casi la mamma abbia lasciato al padre il ruolo preminente nella gestione quotidiana dei figli anche nel corso della convivenza, spesso non è disposta a riconoscerlo e allora questo diventa il punto cruciale da superare per potersi separare serenamente.

Separarsi serenamente è dunque possibile, quando i coniugi o i genitori sono in grado di riconoscere il punto critico della separazione e risolverlo mettendo da parte le rivendicazioni che li hanno portati alla separazione.

 

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genitori-pari-meritoIn tema di affidamento, la tendenza più diffusa è quella di considerare come “preferita”, fra i genitori, la mamma.

Tuttavia, lo stato di diritto nel nostro Paese è ben diverso.

Entrambi i genitori devono ritenersi, a pari merito, idonei all’affidamento

Entrambi i genitori hanno uguali diritti e doveri.

Entrambi i genitori si devono presumere idonei ad esercitare le loro responsabilità.

Ed infatti, per esempio, non si parla più di potestà – del padre o della madre – bensì di “responsabilità genitoriale”.

Si è abbandonata la prevalenza di uno sull’altro, per una sostanziale parità.

Affido condiviso e responsabilità genitoriale sono le parole chiave

Questo è il principio rimarcato anche dalla previsione dell’affido condiviso, in forza del quale deve presumersi che entrambi i genitori sono idonei, a pari merito, alla gestione dei figli.

Tale presunzione opera finché non vi sono dati di fatto che provano il contrario.

Tutti questi principi sono stati di recente considerati e ben espressi da un Giudice del Tribunale di Catania che, con il proprio provvedimento del 2 dicembre 2016, ha esaminato in modo puntuale e logico la questione sottopostale e le relazioni dei consulenti, concludendo che, nel caso di specie, sembrava da preferire il collocamento del minore presso il padre.

In sostanza, il Giudice ha dapprima segnalato la necessità che i genitori debbano avere come obiettivo primario, se non addirittura esclusivo, non il proprio interesse, bensì l’interesse del figlio: il suo equilibrio psichico, sociale, affettivo.

Equilibrio che può essere meglio perseguito in un contesto di parità fra i genitori.

Alla base della valutazione devono esserci l’eguaglianza dei genitori e l’interesse del minore

Il Giudice ha affermato, poi, che nell’ambito di una separazione, pur partendo da un “pari merito”, dev’essere fatta una scelta fra i genitori per il collocamento dei figli.

E nel caso di specie, ha rilevato che è il padre ad essere più equilibrato dal punto di vista emotivo e psicologicamente più solido, meglio orientato ai doveri verso il figlio ed alle necessità del bambino.

Al contrario, la madre è apparsa più fragile e disorientata, più concentrata verso se stessa ed i propri problemi che verso le necessità del figlio.

E’ stato quindi disposto l’affido condiviso con collocamento del bambino presso il padre, disciplinando il diritto di visita a favore della madre e l’obbligo per quest’ultima di contribuire al mantenimento del minore.

 

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mantenimento-alla-ex-moglieNell’ambito della separazione, il marito considera spesso un’ingiustizia dover corrispondere il mantenimento alla ex moglie.

La separazione è un momento difficile per i coniugi sotto ogni profilo e quello economico non è da sottovalutare.

Nell’ambito della separazione, infatti, il coniuge economicamente più forte – che spesso è appunto ancora il marito – può subire risvolti rilevanti, se il tenore di vita della famiglia è sempre stato sostenuto dai suoi redditi.

Il mantenimento alla ex moglie è dovuto anche se lei è laureata, ha un’abilitazione professionale e, almeno in teoria, una rilevante capacità reddituale?

Questo è proprio il caso di recente affrontato dalla Corte di Cassazione.

Marito professionista, moglie casalinga, un figlio maggiorenne ma non ancora autosufficiente.

Il marito gode, oltre che di redditi professionali, di un cospicuo patrimonio immobiliare e di altri beni che evidenziano uno standard di vita piuttosto elevato.

La moglie, pur se laureata ed in possesso di un’abilitazione professionale, non ha mai lavorato e si è sempre dedicata alla famiglia.

Per decidere se e in che misura sia dovuto il mantenimento alla ex-moglie da parte del marito, i Giudici hanno considerato il tenore di vita goduto dai coniugi nel corso della convivenza e raffrontato le capacità economico-patrimoniali di entrambi, senza limitarsi al solo reddito dichiarato ai fini fiscali.

Nel caso in questione i Giudici non hanno avuto dubbi: spetta il mantenimento alla ex moglie, oltre che al figlio.

La valutazione delle capacità economiche dei coniugi, infatti, deve essere fatta in concreto, non in astratto.

La signora, pur se teoricamente in grado di sfruttare le opportunità legate al titolo di studio universitario ed all’abilitazione professionale a suo tempo conseguita, non avendo mai lavorato, di fatto, incontrerebbe non poche difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro in tarda età e senza alcuna esperienza.

D’altra parte, il marito ha dimostrato indubbie capacità reddituali, legate anche al patrimonio a sé intestato.

Più è elevato il tenore di  e più, nell’ambito della separazione, il coniuge economicamente forte, rischia di essere onerato del mantenimento all’altro coniuge, oltre che di vedersi privato della casa coniugale che, pur se di sua proprietà, deve essere assegnata al coniuge che vivrà con i figli minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti.

La separazione può essere quindi molto costosa per il marito che, grazie alla propria attività, professionale o imprenditoriale ha sempre garantito alla famiglia un tenore di vita elevato.

Il mantenimento della ex moglie deve essere parametrato al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale.

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mantenimento-e-mutuo-di-casaL’assegno di mantenimento per l’ex coniuge?

Va ridotto (o non concesso) se il coniuge tenuto al versamento paga anche il mutuo della casa coniugale assegnata all’altro coniuge, beneficiario dell’assegno.

E’ questo l’orientamento della Cassazione che emerge chiaramente da alcune sentenze.

Mantenimento per l’ex coniuge ridotto se l’onerato paga anche il mutuo della casa coniugale

Ad esempio, la sentenza n. 15333/2010 con la quale la Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di ridurre da 400 a 200 Euro l’assegno di mantenimento che l’uomo pagava alla ex moglie.

Tale decurtazione è stata giustificata dal fatto che l’uomo, da solo, pagava già l’intera rata di mutuo gravante sulla casa coniugale, acquistata in comunione dei beni e adibita ad abitazione della moglie.

Lo stesso ragionamento è stato seguito dalla Suprema Corte anche in pronunce successive.

Con l’ordinanza n. 7053/15, infatti, il Collegio ha accolto il ricorso di un uomo che avrebbe dovuto versare alla moglie un mantenimento di 400 Euro al mese.

Anche in questo caso, le rate del mutuo contratto per la casa coniugale venivano pagate interamente dall’uomo.

Se la Corte d’Appello non aveva dato importanza a tale circostanza, della stessa ha invece tenuto gran conto la Cassazione.

Infatti, la Suprema Corte ha rilevato che l’uomo, oltre a corrisponde un assegno per il mantenimento dei due figli e le rate di un finanziamento, si era interamente accollato anche la rata del mutuo contratto per l’acquisto dell’abitazione in comproprietà con la moglie.

Nonostante la miglior posizione reddituale dell’uomo, quindi, a conti fatti, a quest’ultimo restava ben poco per far fronte alle proprie spese quotidiane.

E’ stato accolto, pertanto, il ricorso dell’uomo che non sarà più tenuto a versare alcun assegno di mantenimento all’ex coniuge.

Il Giudice, nel determinare se l’assegno di mantenimento per l’ex coniuge è dovuto ed a quanto ammonta, deve valutare tutti gli aspetti della vicenda

E’ evidente che la Cassazione, con il proprio orientamento, ha dato una chiara indicazione ai Giudici di prime cure, invitandoli a considerare tutti gli aspetti della vicenda quando devono determinare se l’assegno di mantenimento per l’ex coniuge è dovuto ed a quanto ammonta.

 

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affidamento dei figli al papàL’affidamento dei figli al papà non è più un miraggio.

In dieci anni anche i tribunali hanno fatto passi da gigante nella direzione di una valutazione paritaria dei ruoli genitoriali.

L’affidamento dei figli al papà è un diritto dei bambini stessi, quando ve ne sono i presupposti.

Quando, per esempio, è il papà ad essere il genitore che costituisce il loro riferimento nella vita quotidiana.

Quale dei due genitori si è sempre organizzato per crescere, educare ed accudire i figli, magari sacrificando la carriera ed il proprio tempo libero?

Se la risposta è la mamma, come ancora oggi accade nella maggioranza dei casi, sarà la mamma il genitore di riferimento.

Se però la risposta è il papà, sebbene sia certamente un caso meno frequente, ebbene sarà proprio il papà, il genitore di riferimento dei bambini.

Spesso mi trovo ad assistere padri che, nell’ambito di una separazione, possono indiscutibilmente vantare di essere il genitore di riferimento per i figli.

Eppure, anche questi padri faticano a credere di poter vedere riconosciuto da un Tribunale il proprio diritto a continuare a vivere con i figli.

Spesso tali papà sono terrorizzati all’idea di dover lasciare i bambini ad una madre che non è mai stata disposta a fare altrettanto.

E’ infatti ancora fortemente radicata nella nostra cultura la convinzione che sia la mamma a dover crescere i bambini.

Si crede quindi ancora che il padre possa avere qualche speranza di tenere con sé i figli, nell’ambito della separazione, solo se la madre è palesemente inadeguata.

In realtà, ormai da un decennio, il bambino ha diritto alla bi-genitorialità.

E’ quindi un diritto del bambino mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, anche dopo la separazione.

Questo diritto si traduce, in Tribunale,in primis, nell’affidamento condiviso, che costituisce ormai il tipo di affidamento privilegiato.

In secondo luogo, il Giudice dovrà valutare, nell’interesse esclusivo dei figli, con quale genitore i bambini debbano continuare a vivere.

Nella valutazione del Giudice, la madre non parte più avvantaggiata per il solo fatto di essere la madre.

Il Giudice, infatti, sarà tenuto a decidere per l’affidamento dei figli al papà, quando ve ne siano i presupposti.

La decisione del Giudice dovrà quindi fondarsi sulla necessità di dare ai figli minorenni la maggiore stabilità e serenità possibile.

Stabilità e serenità che sono garantite, verosimilmente, dal genitore che è sempre stato il loro prevalente punto di riferimento.

Il Giudice valuterà altresì che il genitore che vivrà con i bambini garantisca all’altro di mantenere rapporti significativi con loro.

Se il papà risulterà essere il genitore di riferimento dei bambini e darà altrettante garanzie di poterlo continuare ad essere, consentendo anche alla madre di poter mantenere un rapporto significativo con i figli, il Tribunale non potrà che decidere per l’affidamento dei figli al papà, a prescindere dall’idoneità genitoriale della madre.

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cognome figlioQuando nasce un figlio ed i genitori sono sposati, è consuetudine attribuirgli il solo cognome paterno.

Consuetudine perché, in realtà, non vi è una norma espressa al riguardo.

Si tratta più di un’usanza che è entrata poi a far parte del nostro sistema normativo ed è stata confermata dall’art. 262 del codice civile che, nel caso figlio naturale (cioè di figlio nato da genitori non sposati), prevede che” se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, il figlio naturale assume il cognome del padre”.

La situazione potrebbe ora cambiare.

La pronuncia della Corte Costituzionale potrebbe segnare la svolta sul tema del cognome da attribuire ai figli

Con una storica pronuncia, infatti, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che prevede l’automatica attribuzione al figlio del cognome paterno ed ha aperto le porte alla questione del doppio cognome.

In realtà, per il momento non vi sono effetti immediati, in quanto sarà necessaria innanzitutto la pubblicazione della sentenza (che spiega i motivi della decisione della Corte Costituzionale) e soprattutto un successivo intervento legislativo che modifichi le norme attuali e introduca la nuova disciplina.

Al riguardo, si segnala che da tempo è in corso l’esame di una proposta di legge che introduce la libertà di scelta del cognome da attribuire al neonato.

Se infatti, dopo lunga attesa, un primo segnale era arrivato nel settembre 2014 con l’approvazione del testo di legge da parte della Camera, il regolamento si è purtroppo nuovamente arenato al Senato che non ha ancora discusso la normativa.

Di certo, questa decisione farà discutere e darà probabilmente una nuova spinta alla questione.

E, se fino ad ora, per poter dare il doppio cognome ai propri figli era necessario rivolgersi al Prefetto per ottenere l’autorizzazione all’aggiunta del cognome materno (autorizzazione che veniva rilasciata solo in presenza di determinate circostanze) oppure, per le coppie non sposate, procedere al riconoscimento dapprima da parte della madre e solo in un secondo momento da parte del padre, d’ora in poi, se la strada aperta dalla magistratura verrà percorsa, i genitori potranno invece decidere di attribuire ai figli, secondo la loro volontà, il cognome del padre o quello della madre ovvero quelli di entrambi nell’ordine concordato.

Non resta che attendere gli sviluppi.

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bigenitorialitàNonostante il principio della bigenitorialità sia stato introdotto in Italia ormai da un decennio, con la legge 54/2006 sull’affidamento condiviso, di recente si è parlato ancora di “maternal preference”, ossia di preferenza della madre nelle decisioni sull’affidamento dei minori.

Ma in cosa consiste il diritto dei figli alla bigenitoriliatà?

La bigenitorilità è il diritto  “di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”, come espressamente previsto dalla legge.

Come si attua, quindi, in concreto il diritto alla bigenitorialità quando i genitori (che fossero o meno sposati) decidono di interrompere la convivenza?

Come può garantire ai figli minori il diritto alla bigenitorialità il Giudice che deve decidere sul loro affidamento?

Anche la risposta a questa domanda si trova nella legge, che precisa che proprio per realizzare la finalità della bigenitorialità, “il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”.

Considerato che spesso mi trovo ad assistere padri separati, devo riconoscere che i Giudici, anche nei procedimenti più difficili e conflittuali, tendono ad assumere decisioni volte a tutelare effettivamente i minori, valutando, caso per caso, quale tipo di affidamento e di collocamento garantisca maggiormente non solo il diritto dei figli alla bigenitorialità, ma anche il loro diritto ad una crescita equilibrata e serena.

Del resto la legge prevede espressamente che anche dopo la separazione, “La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente”.

In un contesto che inneggia alla “bigenitorialità”, in cui i genitori sembrano finalmente partire sullo stesso piano anche davanti al Giudice che deve decidere sull’affidamento ed il collocamento dei figli, stride la sentenza n. 18087 del 14 settembre 2016 pronunciata dalla Corte di Cassazione, che, pur ammettendone la “teorica valenza scientifica” ha ritenuto “plausibilmente valorizzato” dalla Corte d’Appello il datato ed anacronistico criterio della cd. “maternal preference”, cioè il criterio che, a parità di capacità genitoriale dei due genitori, tende a preferire la madre nella decisione sul collocamento dei minori.

Tale decisione che, per come formulata, ha destato stupore e giustificato aspre critiche, sembra tuttavia già superata dall’ultima decisione dell’autorevole Nona Sezione del Tribunale di Milano, del 19 ottobre 2016, la quale ha precisato con parole inequivocabili che “il principio di piena bigenitorialità e quello di parità genitoriale hanno condotto all’abbandono del criterio della “maternal preference” a mezzo di «gender neutral child custody laws», ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore, il genitore di prevalente collocamento non potendo essere il solo genere a determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale; normative del genere sono univocamente anche quelle da ultimo introdotte in Italia dal Legislatore (in particolare, la legge 54 del 2006; ma anche la legge 219 del 2012 e il dlgs 154 del 2013)”.

I padri possono stare tranquilli: il diritto alla bigenitorialità non è solo previsto dalla legge, ma anche sempre più attuato dai Giudici italiani nelle proprie sentenze, che prescindono dal ruolo genitoriale,  optando per il collocamento presso il genitore che meglio garantisca una crescita serena ed equilibrata dei bambini.