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LRiconciliazione a riconciliazione dopo la separazione non richiede l’intervento del Giudice ed è facile da attuare.

– “Avvocato, la conosce quella vecchia canzone di Gianni Nazzaro … Mi sono innamorato di mia moglie!” – mi canticchiò il cliente, che credevo di aver ricevuto per il divorzio, considerato che era ormai passato almeno un anno dalla sua separazione.

– “Dopo la separazione ci siamo parlati ed abbiamo risolto i nostri problemi. Viviamo insieme e siamo più felici di prima” – proseguì il mio cliente, concludendo con una domanda: – “Ma ora ci dobbiamo risposare?” –

– “Ovviamente no!” – risposi io, facendogli tirare un sospiro di sollievo. – “Sa, avvocato, risposarla mi sarebbe costato più della separazione!” – mi spiegò ridendo.

Sebbene non sia usuale, i coniugi separati possono riconciliarsi in qualsiasi momento facendo cessare gli effetti della separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice né, tanto meno, un nuovo matrimonio.

La riconciliazione può avvenire in due modi alternativi:

  • con una espressa dichiarazione resa all’Ufficiale di stato civile presso il Comune ove fu celebrato o trascritto il matrimonio. In tal caso la dichiarazione di riconciliazione viene annotata a margine dell’atto di matrimonio negli archivi dello stato civile;
  • con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione. In questo caso i coniugi devono ricostituire l’unione coniugale, non solo con il ripristino della convivenza, se interrotta, ma anche con la ripresa, in tutto e per tutto, del rapporto matrimoniale.

Se prima della separazione i coniugi erano in comunione dei beni, la riconciliazione comporta la ricostituzione della comunione.

Ma cosa succede se dopo la riconciliazione il matrimonio entra di nuovo in crisi ed i coniugi decidono nuovamente di separarsi?

I coniugi che decidano di separarsi dopo la riconciliazione, dovranno rivolgersi nuovamente al Tribunale proponendo una nuova domanda di separazione e, in caso di disaccordo, il Giudice dovrà riesaminare il caso, rivalutando le condizioni economiche e patrimoniali dei coniugi al momento della nuova separazione e prendendo in considerazione i fatti avvenuti dopo la riconciliazione.

Considerato che una separazione, giudiziale o consensuale che sia, può già essere pesante sotto ogni profilo, ma una doppia separazione, in conseguenza di una riconciliazione fallita, potrebbe avere ulteriori ed imprevisti risvolti, consiglierei comunque al mio cliente un colloquio approfondito per prevenire eventuali questioni spinose.

 

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figliQuando il rapporto fra i genitori va in crisi, può accadere che uno dei genitori tenga un comportamento oppositivo nei confronti dell’altro, che può spingersi addirittura fino ad imporre ai figli di non avere più rapporti appunto con l’altro genitore.

Cosa accade se un genitore impedisce all’altro di avere frequentazioni con i propri figli?

Un tale caso è stato esaminato e valutato dal Tribunale di Roma che ha emesso al riguardo la sentenza n. 18475/15.

Chiarisce il Tribunale che, in questi casi, si parla di Sindrome da Alienazione Parentale (PAS – Parental Alienation Syndrome) “nella quale un genitore (cd. alienatore) attiva una sorta di programmatico allontanamento dei figli da e contro l’altro genitore (cd. alienato), talvolta con il pieno coinvolgimento in tal senso dei figli stessi manovrati e/o comunque influenzati allo scopo“.

Nel caso esaminato dal Tribunale, la madre della minore aveva volontariamente interrotto ogni frequentazione padre/figlia, dapprima impedendo le visite, successivamente interrompendo anche ogni contatto telefonico.

Anche i servizi Sociali incaricati di seguire la vicenda hanno riferito dell’impossibilità di contattare anche telefonicamente la madre, rendendo quindi impossibile agli stessi Servizi Sociali qualsiasi tentativo di ristabilire i rapporti di frequentazione padre/figlia.

Emerge altresì che la denigrazione operata dalla madre era rivolta non solo al padre, ma estesa all’intera famiglia, con la conseguenza che la figlia, con il tempo, non aveva potuto maturare un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore, né con i suoi familiari.

Con tale sentenza – che costituisce un nuovo orientamento del Tribunale – il Giudice, ritenuta evidente la sistematica denigrazione operata dalla madre, ha condannato la madre stessa a risarcire al padre il danno non patrimoniale subito in conseguenza della “alienazione parentale” messa in atto dalla donna.

Il Tribunale ha rilevato, infatti, che ciascun genitore ha diritto alla genitorialità.

Tale diritto è costituzionalmente garantito e, pertanto, la lesione dello stesso ha come conseguenza l’insorgere di un danno non patrimoniale – determinato dalla lesione di interessi inerenti la sua persona – risarcibile in via equitativa.

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Il matrimonio si fa in due e certamente si disfa in due, ma se un coniuge non vuole la separazione, l’altro la ottiene comunque?

separazione

Ogni avvocato che si occupi di diritto di famiglia, in occasione dell’inizio di una nuova separazione voluta solo da uno dei due coniugi, spesso si trova a dover sfatare quella che pare essere una convinzione molto diffusa: “Ovviamente se io non voglio la separazione, rimarremo insieme?!”, ed ogni avvocato a cui lo chiederete vi risponderà: “Ovviamente No!”.

In realtà a volte capita che la posizione del coniuge fortemente contrario alla separazione possa indurre l’altro coniuge ad accettare di “ricominciare”, ma quando l’altro coniuge è irremovibile e vuole separarsi, separazione sarà.

Da avvocato mi sono ritrovata spesso a spiegare questo concetto: la legge prevede che il vincolo matrimoniale possa tenere legati i coniugi solo sino a quando entrambi i coniugi lo vogliano.

Cosa succederà quindi se il coniuge contrario alla separazione non dovesse neppure voler discutere delle condizioni di una separazione che rifiuta di concetto?

In tal caso il coniuge che desidera la separazione non potrà far altro che rivolgersi ad un avvocato, illustrargli come vorrebbe disciplinare i rapporti con l’altro coniuge e, se ve ne sono, con i figli e far predisporre al proprio avvocato un ricorso per separazione giudiziale.

Il coniuge che si oppone alla separazione riceverà quindi una copia del ricorso con l’invito a partecipare all’udienza che il Tribunale fisserà per prendere i provvedimenti provvisori ed urgenti.

Se il coniuge che non vuole separarsi dovesse rimanere della sua idea, rifiutando anche solo di discutere le richieste avanzate dall’altro coniuge, probabilmente finirebbe per precludersi la possibilità di dire la sua sulle condizioni di una separazione che, volente o nolente, dovrà subire.

La legge, infatti, non contempla le “questioni di principio”, ma solo “questioni di diritto”: il coniuge che non prenderà posizione altro che per esprimere il proprio dissenso, si ritroverà comunque separato, perché il Tribunale non potrà far altro che dichiarare la separazione, ma si sarà precluso la possibilità di far valere i propri diritti in ordine al mantenimento ed alle modalità di visita dei figli, per esempio, aggiungendo il danno alla beffa.

Tale comportamento può avere ripercussioni particolarmente gravose se il coniuge contrario a separarsi è il coniuge ritenuto economicamente più forte, che, non difendendosi, rischia che il Tribunale assecondi tutte le richieste dell’altro coniuge, disponendo assegni di mantenimento rilevanti, modalità di visita poco consone ai propri ritmi lavorativi ed alla conservazione di un buon rapporto con i figli, pregiudicandone anche la serenità futura.

La scelta di rinunciare a far valere i propri diritti, quindi, crea i danni più gravi proprio quando il coniuge che la compie ha molto da perdere.

Se invece il coniuge che si trova a subire la decisione dell’altro dovesse quanto meno decidere di presentarsi alla prima udienza, il Giudice potrà tentare la conciliazione, anche solo allo scopo di trasformare una separazione giudiziale in una consensuale.

Il coniuge che è capace di cogliere quest’ultima opportunità, comprendendo che, indipendentemente dalla sua volontà, si ritroverà separato, riuscirà probabilmente a contrattare le modalità di gestione dei rapporti in vista di una vita da separato, evitando di compromettere anche il proprio futuro.

Naturalmente i coniugi separati possono sempre riconciliarsi e decidere di tornare a comporre una famiglia unita, senza dover ricorrere ad alcuna formalità.

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Separazione e socialDi chi è la colpa della separazione?

Nel deciderlo, i Giudici di Roma hanno considerato come prova anche le conversazioni social della moglie.

Il giudizio era stato iniziato dalla moglie, che chiedeva l’addebito della separazione al marito perché, secondo la stessa, la crisi matrimoniale era dovuta al prolungarsi dell’attività lavorativa all’estero del marito, che non era intenzionato a tornare in Italia.

Il marito, dal canto suo, ha contestato invece alla moglie di aver violato l’obbligo di fedeltà, iniziando una relazione extraconiugale e, dichiaratosi favorevole alla separazione, chiedeva che la stessa fosse addebitata alla moglie.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, per l’addebito della separazione “deve esistere un nesso di causalità tra i comportamenti addebitabili al coniuge ed il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza

I Giudici del Tribunale di Roma, svolta l’istruttoria, nel pronunciare la separazione, hanno ritenuto che la stessa non potesse addebitarsi al marito, bensì alla moglie ricorrente.

Hanno infatti rilevato, nella sentenza n. 11253/16, che nel corso del giudizio è risultato pacifico che il marito avesse svolto la propria attività all’estero già prima sia della nascita del figlio che del matrimonio, con condivisione della scelta da parte della moglie.

Il lavoro all’estero, infatti, consentiva alla famiglia di avere un tenore di vita molto più elevato di quello che sarebbe stato condotto se il marito se avesse lavorato in Italia.

Ad esempio, il figlio era stato iscritto ad una costosa scuola materna internazionale, proprio per fargli proseguire la fruttuosa esperienza fatta all’estero e consolidare l’apprendimento della lingua inglese.

Rilevanti i commenti entusiasti postati sui social dalla moglie

Ma, a far escludere l’addebito al marito, sono state le conversazioni social della donna la quale, nelle proprie chiacchierate telematiche con gli amici, risultava entusiasta dei propri frequenti viaggi a Dubai e della vita che là trascorreva, fatta di vacanze, mare, feste e divertimenti.

Peraltro, sempre sulla base delle conversazioni telematiche della donna, dal contenuto inequivocabile quanto al tenore affettivo e sessuale della relazione, i Giudici del Tribunale hanno poi ritenuto che la violazione del dovere di fedeltà coniugale da parte della donna portasse a ritenere la stessa responsabile della crisi del rapporto e, quindi, della separazione.

Accolta, pertanto, la domanda di addebito del marito nei confronti della moglie.

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divorzioL’ex coniuge, successivamente al divorzio, ha cambiato lavoro?

Potreste avere diritto ad una quota del suo TFR.

La legge n. 898 del 1970 che regola il divorzio, infatti, prevede che il coniuge ha diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto (TFR) percepita dall’altro coniuge.

Sono necessari dei requisiti per avere diritto alla quota di TFR dopo il divorzio.

I presupposti per avere diritto alla quota sono i seguenti:

  • innanzitutto, la pronuncia di una sentenza di divorzio;
  • in secondo luogo che nella sentenza sia previsto l’obbligo per un coniuge di versare periodicamente a favore dell’altro un assegno;
  • in terzo luogo, che il beneficiario dell’assegno non sia passato a nuove nozze.

A quanto ammonta la quota di TFR che spetta all’altro coniuge dopo il divorzio?

Se ricorrono tali requisiti, il coniuge beneficiario ha diritto ad una quota del TFR pari al 40% dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

Va segnalato che la legge riferisce espressamente che il diritto alla quota di TFR (indennità di fine rapporto) dell’ex coniuge è dovuta anche se l’indennità  viene a maturare dopo la sentenza. Tale previsione significa che non importa da quanto tempo è stata pronunciata la sentenza (pochi mesi o alcuni anni): il diritto alla quota sussiste sempre se ricorrono i requisiti elencati.

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separazione e divorzioState affrontando separazione e divorzio e vorreste farlo in Comune anziché in Tribunale?

La nuova procedura, che consente di ricorrere all’Ufficiale dello Stato Civile anziché al Tribunale per separazione e divorzio e anche per la modifica delle condizioni di separazione e divorzio precedenti, è stata introdotta con la riforma avuta nel 2014 (d.l. n. 132/14 e legge n. 162/14).

Separazione e divorzio in Comune: bisogna rispettare alcune condizioni

A tale procedura si può ricorrere a condizione che “non vi siano figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero non economicamente autosufficienti”.

Questa, però, non è l’unica condizione, in quanto la legge prevede anche che: “l’accordo non può contenere patti di trasferimento patrimoniale”.

Tuttavia, una circolare del Ministero dell’Interno (n. 6 del 24.4.15) ha interpretato tale condizione nel senso che è escluso da tale divieto “l’obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno periodico”.

Conseguenza: in forza di tale circolare, sembra possibile che l’accordo di separazione e divorzio fatto in Comune possa riguardare anche gli aspetti patrimoniali se questi sono relativi al pagamento, da parte di un coniuge ed a favore dell’altro, di un assegno periodico (cosiddetti assegno di mantenimento e assegno divorzile).

La nuova procedura e l’assegno a favore del coniuge

Tale interpretazione, tuttavia, è stata contestata dinanzi al TAR del Lazio che, con sentenza n. 7813 del 07.07.16, ha annullato la Circolare del Ministero dell’Interno.

Il TAR ha affermato, con la propria pronuncia, che la procedura di separazione e divorzio dinanzi all’Ufficiale di stato civile è una procedura agevolata e semplificata, che tuttavia può essere seguita solo in presenza di condizioni che non danneggino i soggetti deboli, che con tale procedura non hanno alcuna forma di tutela.

Infatti, l’Ufficiale di stato civile deve solo “registrare” la decisione dei coniugi di separarsi o divorziare, senza poter entrare nel merito degli accordi, a differenza di quanto avviene quando i coniugi sono assistiti da un legale che, invece, fornisce ai coniugi tutte le indicazioni relative a conseguenze, vantaggi e svantaggi delle scelte che stanno facendo.

Prevedere, quindi, che davanti all’Ufficiale di stato civile i coniugi si possano accordare per il pagamento di un assegno periodico, senza che siano spiegate le conseguenze di tale scelta, potrebbe comportare un danno per il soggetto debole, circostanza che, afferma il TAR, si deve evitare.

In conclusione, qualora i coniugi siano interessati a concordare il pagamento di un assegno periodico, non gli sarà possibile affrontare separazione e divorzio in Comune, ma sarà loro necessario (e opportuno) farsi assistere da un legale.

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contratto di convivenza

Il contratto di convivenza è una novità introdotta nel diritto di famiglia dalla legge n. 76/2016 detta Legge Cirinnà e consente ai conviventi di fatto di regolamentare così “i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune”.

Ovviamente ma non è necessario che una coppia di fatto stipuli un contratto di convivenza, ma può essere opportuno per mettere in chiaro e nero su bianco come i conviventi intendono regolare i rapporti economici e patrimoniali che dalla convivenza derivano.

Per stipulare un contratto di convivenza bastano due righe scritte su un foglio qualunque e firmate da entrambi? No! E’ necessario che i conviventi si rivolgano ad un notaio o ad un avvocato.

I contratti di convivenza devono essere sì “redatti in forma scritta, a pena di nullità” e la stipula deve avvenire “con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico”.

Il contratto di convivenza firmato dal notaio o dall’avvocato non sarà però solamente vincolante per i conviventi che lo hanno firmato, ma sarà reso pubblico e quindi “opponibile ai terzi”, esattamente come il regime patrimoniale scelto dai coniugi.

Il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione, infatti, dovrà, entro i successivi dieci giorni, trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe.

Il contratto di convivenza può contenere:

a)  l’indicazione della residenza scelta dai conviventi;
b)  le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;
c)  il regime patrimoniale della comunione dei beni, poiché, in assenza di previsione, i conviventi di fatto mantengono ovviamente separati i propri beni e patrimoni.

Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza, ma sempre rivolgendosi al notaio o dall’avvocato.

Ovviamente il contratto di convivenza è affetto da nullità insanabile che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso:

a)  in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza;
b)  da persone legate da vincoli di parentela, affinità o adozione;
c)  da persona minore di età;
d)  da persona interdetta giudizialmente;
e)  in caso di condanna per omicidio o tentato omicidio da parte di un convivente nei confronti del coniuge dell’altro convivente.

Il contratto di convivenza termina per:

a)  accordo delle parti;
b)  recesso unilaterale;
c)  matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona;
d)  morte di uno dei contraenti.

Anche per porre termine al contratto di convivenza, i conviventi si devono recare nuovamente dal professionista che lo aveva redatto, il quale dovrà provvedere a darne comunicazione all’ufficio anagrafe e, in caso di recesso unilaterale a  notificarne copia all’altro contraente all’indirizzo risultante dal contratto di convivenza stesso.

Se nel contratto di convivenza era stato scelto il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima, secondo le stesse modalità previste per lo scioglimento della comunione tra coniugi.

Nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del convivente che recede dal contratto di convivenza, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione.

Il tempo dirà se questo strumento sarà apprezzato ed utilizzato dalle coppie di fatto ma certamente il legislatore ha in questo modo aperto una porta ai contratti pre-matrimoniali.

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mantenimento figli maggiorenniÈ risaputo che, se a carico del genitore (separato o divorziato) è previsto l’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli, tale obbligo normalmente prosegue anche quando gli i figli diventano maggiorenni.

Infatti, il diritto dei figli al mantenimento non è legato solo all’età, ma è giustificato dal fatto che il genitore deve consentire ai propri figli di realizzare un progetto educativo ed un percorso formativo, “tenendo conto delle capacità, dell’ inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” (art. 147 del codice civile).

I figli hanno quindi diritto, ad esempio, di poter scegliere e seguire un corso di studi o corsi professionali la cui durata, normalmente, va oltre il compimento della maggiore età.

Con la conseguenza che, al raggiungimento della maggiore età, i figli non hanno ancora potuto raggiungere una propria indipendenza economica e il genitore resta obbligato a corrispondere il mantenimento.

La cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto

Tuttavia, con una recentissima pronuncia (sentenza n. 12952 del 22.06.16) la Corte di Cassazione ha pronunciato il seguente principio di diritto: “la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo: all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa ed, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta dal raggiungimento della maggiore età da parte dell’avente diritto”.

La Suprema Corte, pronunciandosi a favore di un padre che aveva chiesto la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni (rispettivamente nati nel 1980 e nel 1982), ha ritenuto che, “con il raggiungimento di un’età nella quale il percorso formativo e di studi, nella normalità dei casi, è ampiamente concluso e la persona è da tempo inserita nella società”, se non vi sono ragioni individuali specifiche (quali motivi di salute o particolari esigenze personali o oggettive difficoltà nel trovare o conservare un’occupazione), “la condizione di persistenze mancanza di autosufficienza economico reddituale costituisce un indicatore forte di inerzia colpevole”.

La mancanza di volontà, da parte dei figli, nel trovare un’occupazione che gli consenta di rendersi autonomi costituisce un indicatore forte di inerzia colpevole

Nel caso sottoposto alla Corte, esaminati i fatti rappresentati in causa dal padre obbligato al mantenimento, è emersa una vera e propria mancanza di volontà, da parte dei figli, nel trovare un’occupazione che gli consentisse di rendersi autonomi.

Tale specifica condotta comporta un ingiustificato prolungamento del diritto dei figli al mantenimento e, per tale motivo, non può essere tutelata altrimenti si giustificherebbe una forma di parassitismo “contrastante con il principio di autoresponsabilità”, anche tenuto conto che, se è vero che i genitori hanno dei doveri verso i figli, è altrettanto vero che i figli adulti hanno anch’essi doveri nei confronti dei propri genitori.

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35114987 - concept family: happy couple in the new apartment dream and plan interior

Le coppie di fatto esistono ancora? Quali diritti e quali doveri per i conviventi dopo la legge Cirinnà, che ha rivoluzionato il diritto di famiglia?

Regolamentando diritti e doveri dei conviventi, la Legge Cirinnà ha trasformato quelle che un tempo erano coppie di fatto in coppie “di diritto” a tutti gli effetti.

Ora dunque, anche se  due «conviventi di fatto», ossia – come spiega la legge Cirinnà – “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, volessero la sola convivenza, rischierebbero di vedersi attribuire comunque, per legge, parte dei medesimi diritti e doveri che sono attribuiti ai coniugi.

Con la differenza, non irrilevante, che i coniugi hanno consapevolmente scelto di sposarsi e progettato una vita familiare basata sul vincolo matrimoniale.

Per la verità potranno ben essere condivise norme di civiltà che equiparano i conviventi ai coniugi, attribuendo loro i medesimi diritti di visita e di assistenza in caso di ricovero o di carcerazione del compagno, o il diritto di concorrere a pari merito con coppie sposate per l’attribuzione di un alloggio popolare, o ancora di veder riconosciuto il proprio diritto al risarcimento del danno morale ove la morte del compagno sia causata dal fatto illecito di altri (per esempio in conseguenza di un grande sinistro) o di proseguire il contratto di locazione alla morte del compagno.

E’ giusto che chi pensava a cuor leggero alle conseguenze di una semplice convivenza sappia tuttavia che la legge prevede anche un diritto del convivente ad ottenere gli alimenti dall’altro convivente in caso di cessazione del rapporto, qualora si trovi in stato di bisogno e non abbia la possibilità di provvedere al proprio mantenimento.

Gli alimenti possono però essere assegnati dal Giudice solo per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.

La legge Cirinnà introduce per le coppie di fatto una novità assoluta: il “contratto di convivenza”.

I conviventi potranno decidere la propria residenza e regolamentare le modalità di contribuzione economica al sostegno della famiglia, oltre che adottare, se lo vorranno, il regime patrimoniale della comunione di beni.

Un’ultima rassicurante annotazione: non sarà necessario ricorrere al Giudice per sciogliere una coppia di fatto, nemmeno se i conviventi avranno stipulato un contratto di convivenza, a meno che la presenza di figli da affidare, la necessità che un convivente passi all’altro gli alimenti, o altre circostanze non risolvibili con un accordo lo richiedano.

Il diritto di famiglia continua ad evolvere insieme alla società ed ora attendiamo

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assegno-di-mantenimentoNell’ambito del diritto di famiglia, può accadere che il genitore che deve pagare l’ assegno di mantenimento per il figlio non vi provveda.

In questo caso, accanto al metodo tradizionale di recupero forzoso (pignoramento), la legge prevede un modo speciale per incassare le somme dell’ assegno di mantenimento, che consente di riscuotere direttamente le somme, con il solo intervento del legale e senza necessità dell’intervento del Giudice.

La procedura è prevista dalla legge sul divorzio (art. 8) con riferimento al mantenimento dovuto per i figli nati nell’ambito del matrimonio, ma è applicabile – in quanto espressamente richiamata dalla normativa – anche nel caso in cui l’ assegno di mantenimento debba essere corrisposto dal genitore a favore di figli nati fuori dal matrimonio.

Perché si possa attivare tale procedura, è necessario che vi sia un assegno di mantenimento da pagare e che ci siano dei soggetti terzi che sono tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro al genitore obbligato (quindi: datore di lavoro, enti pensionistici, conduttori di immobili, etc.)

La procedura ha inizio con l’invio di una raccomandata al genitore obbligato che non ha pagato l’ assegno di mantenimento ed ha un ritardo nel pagamento di almeno 30 giorni.

Se la “messa in mora” non induce il genitore inadempiente a pagare quanto dovuto, il legale procede inviando al terzo un invito a corrispondere direttamente lui stesso le somme dovute  a titolo di assegno di mantenimento, trattenendole dalle somme che il terzo stesso deve periodicamente al genitore obbligato.

Al tempo stesso, dell’invio di tale invito deve essere data comunicazione anche al genitore inadempiente.

Dal momento della ricezione del suddetto invito, il terzo sarà quindi tenuto a pagare direttamente l’ assegno di mantenimento con le modalità che gli sono indicate nell’invito.

Tale procedura consente ovviamente di ottenere il pagamento dell’ assegno di mantenimento per quanto riguarda le somme “future”, dovute cioè successivamente all’attivazione della procedura.

Per poter recuperare le somme arretrate dovute a titolo di mantenimento, dovrà invece essere utilizzato il metodo tradizionale del pignoramento, con il conseguente intervento del Giudice.