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mantenimento-alla-ex-moglieNell’ambito della separazione, il marito considera spesso un’ingiustizia dover corrispondere il mantenimento alla ex moglie.

La separazione è un momento difficile per i coniugi sotto ogni profilo e quello economico non è da sottovalutare.

Nell’ambito della separazione, infatti, il coniuge economicamente più forte – che spesso è appunto ancora il marito – può subire risvolti rilevanti, se il tenore di vita della famiglia è sempre stato sostenuto dai suoi redditi.

Il mantenimento alla ex moglie è dovuto anche se lei è laureata, ha un’abilitazione professionale e, almeno in teoria, una rilevante capacità reddituale?

Questo è proprio il caso di recente affrontato dalla Corte di Cassazione.

Marito professionista, moglie casalinga, un figlio maggiorenne ma non ancora autosufficiente.

Il marito gode, oltre che di redditi professionali, di un cospicuo patrimonio immobiliare e di altri beni che evidenziano uno standard di vita piuttosto elevato.

La moglie, pur se laureata ed in possesso di un’abilitazione professionale, non ha mai lavorato e si è sempre dedicata alla famiglia.

Per decidere se e in che misura sia dovuto il mantenimento alla ex-moglie da parte del marito, i Giudici hanno considerato il tenore di vita goduto dai coniugi nel corso della convivenza e raffrontato le capacità economico-patrimoniali di entrambi, senza limitarsi al solo reddito dichiarato ai fini fiscali.

Nel caso in questione i Giudici non hanno avuto dubbi: spetta il mantenimento alla ex moglie, oltre che al figlio.

La valutazione delle capacità economiche dei coniugi, infatti, deve essere fatta in concreto, non in astratto.

La signora, pur se teoricamente in grado di sfruttare le opportunità legate al titolo di studio universitario ed all’abilitazione professionale a suo tempo conseguita, non avendo mai lavorato, di fatto, incontrerebbe non poche difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro in tarda età e senza alcuna esperienza.

D’altra parte, il marito ha dimostrato indubbie capacità reddituali, legate anche al patrimonio a sé intestato.

Più è elevato il tenore di  e più, nell’ambito della separazione, il coniuge economicamente forte, rischia di essere onerato del mantenimento all’altro coniuge, oltre che di vedersi privato della casa coniugale che, pur se di sua proprietà, deve essere assegnata al coniuge che vivrà con i figli minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti.

La separazione può essere quindi molto costosa per il marito che, grazie alla propria attività, professionale o imprenditoriale ha sempre garantito alla famiglia un tenore di vita elevato.

Il mantenimento della ex moglie deve essere parametrato al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale.

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mantenimento-e-mutuo-di-casaL’assegno di mantenimento per l’ex coniuge?

Va ridotto (o non concesso) se il coniuge tenuto al versamento paga anche il mutuo della casa coniugale assegnata all’altro coniuge, beneficiario dell’assegno.

E’ questo l’orientamento della Cassazione che emerge chiaramente da alcune sentenze.

Mantenimento per l’ex coniuge ridotto se l’onerato paga anche il mutuo della casa coniugale

Ad esempio, la sentenza n. 15333/2010 con la quale la Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di ridurre da 400 a 200 Euro l’assegno di mantenimento che l’uomo pagava alla ex moglie.

Tale decurtazione è stata giustificata dal fatto che l’uomo, da solo, pagava già l’intera rata di mutuo gravante sulla casa coniugale, acquistata in comunione dei beni e adibita ad abitazione della moglie.

Lo stesso ragionamento è stato seguito dalla Suprema Corte anche in pronunce successive.

Con l’ordinanza n. 7053/15, infatti, il Collegio ha accolto il ricorso di un uomo che avrebbe dovuto versare alla moglie un mantenimento di 400 Euro al mese.

Anche in questo caso, le rate del mutuo contratto per la casa coniugale venivano pagate interamente dall’uomo.

Se la Corte d’Appello non aveva dato importanza a tale circostanza, della stessa ha invece tenuto gran conto la Cassazione.

Infatti, la Suprema Corte ha rilevato che l’uomo, oltre a corrisponde un assegno per il mantenimento dei due figli e le rate di un finanziamento, si era interamente accollato anche la rata del mutuo contratto per l’acquisto dell’abitazione in comproprietà con la moglie.

Nonostante la miglior posizione reddituale dell’uomo, quindi, a conti fatti, a quest’ultimo restava ben poco per far fronte alle proprie spese quotidiane.

E’ stato accolto, pertanto, il ricorso dell’uomo che non sarà più tenuto a versare alcun assegno di mantenimento all’ex coniuge.

Il Giudice, nel determinare se l’assegno di mantenimento per l’ex coniuge è dovuto ed a quanto ammonta, deve valutare tutti gli aspetti della vicenda

E’ evidente che la Cassazione, con il proprio orientamento, ha dato una chiara indicazione ai Giudici di prime cure, invitandoli a considerare tutti gli aspetti della vicenda quando devono determinare se l’assegno di mantenimento per l’ex coniuge è dovuto ed a quanto ammonta.

 

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affidamento dei figli al papàL’affidamento dei figli al papà non è più un miraggio.

In dieci anni anche i tribunali hanno fatto passi da gigante nella direzione di una valutazione paritaria dei ruoli genitoriali.

L’affidamento dei figli al papà è un diritto dei bambini stessi, quando ve ne sono i presupposti.

Quando, per esempio, è il papà ad essere il genitore che costituisce il loro riferimento nella vita quotidiana.

Quale dei due genitori si è sempre organizzato per crescere, educare ed accudire i figli, magari sacrificando la carriera ed il proprio tempo libero?

Se la risposta è la mamma, come ancora oggi accade nella maggioranza dei casi, sarà la mamma il genitore di riferimento.

Se però la risposta è il papà, sebbene sia certamente un caso meno frequente, ebbene sarà proprio il papà, il genitore di riferimento dei bambini.

Spesso mi trovo ad assistere padri che, nell’ambito di una separazione, possono indiscutibilmente vantare di essere il genitore di riferimento per i figli.

Eppure, anche questi padri faticano a credere di poter vedere riconosciuto da un Tribunale il proprio diritto a continuare a vivere con i figli.

Spesso tali papà sono terrorizzati all’idea di dover lasciare i bambini ad una madre che non è mai stata disposta a fare altrettanto.

E’ infatti ancora fortemente radicata nella nostra cultura la convinzione che sia la mamma a dover crescere i bambini.

Si crede quindi ancora che il padre possa avere qualche speranza di tenere con sé i figli, nell’ambito della separazione, solo se la madre è palesemente inadeguata.

In realtà, ormai da un decennio, il bambino ha diritto alla bi-genitorialità.

E’ quindi un diritto del bambino mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, anche dopo la separazione.

Questo diritto si traduce, in Tribunale,in primis, nell’affidamento condiviso, che costituisce ormai il tipo di affidamento privilegiato.

In secondo luogo, il Giudice dovrà valutare, nell’interesse esclusivo dei figli, con quale genitore i bambini debbano continuare a vivere.

Nella valutazione del Giudice, la madre non parte più avvantaggiata per il solo fatto di essere la madre.

Il Giudice, infatti, sarà tenuto a decidere per l’affidamento dei figli al papà, quando ve ne siano i presupposti.

La decisione del Giudice dovrà quindi fondarsi sulla necessità di dare ai figli minorenni la maggiore stabilità e serenità possibile.

Stabilità e serenità che sono garantite, verosimilmente, dal genitore che è sempre stato il loro prevalente punto di riferimento.

Il Giudice valuterà altresì che il genitore che vivrà con i bambini garantisca all’altro di mantenere rapporti significativi con loro.

Se il papà risulterà essere il genitore di riferimento dei bambini e darà altrettante garanzie di poterlo continuare ad essere, consentendo anche alla madre di poter mantenere un rapporto significativo con i figli, il Tribunale non potrà che decidere per l’affidamento dei figli al papà, a prescindere dall’idoneità genitoriale della madre.

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cognome figlioQuando nasce un figlio ed i genitori sono sposati, è consuetudine attribuirgli il solo cognome paterno.

Consuetudine perché, in realtà, non vi è una norma espressa al riguardo.

Si tratta più di un’usanza che è entrata poi a far parte del nostro sistema normativo ed è stata confermata dall’art. 262 del codice civile che, nel caso figlio naturale (cioè di figlio nato da genitori non sposati), prevede che” se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, il figlio naturale assume il cognome del padre”.

La situazione potrebbe ora cambiare.

La pronuncia della Corte Costituzionale potrebbe segnare la svolta sul tema del cognome da attribuire ai figli

Con una storica pronuncia, infatti, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che prevede l’automatica attribuzione al figlio del cognome paterno ed ha aperto le porte alla questione del doppio cognome.

In realtà, per il momento non vi sono effetti immediati, in quanto sarà necessaria innanzitutto la pubblicazione della sentenza (che spiega i motivi della decisione della Corte Costituzionale) e soprattutto un successivo intervento legislativo che modifichi le norme attuali e introduca la nuova disciplina.

Al riguardo, si segnala che da tempo è in corso l’esame di una proposta di legge che introduce la libertà di scelta del cognome da attribuire al neonato.

Se infatti, dopo lunga attesa, un primo segnale era arrivato nel settembre 2014 con l’approvazione del testo di legge da parte della Camera, il regolamento si è purtroppo nuovamente arenato al Senato che non ha ancora discusso la normativa.

Di certo, questa decisione farà discutere e darà probabilmente una nuova spinta alla questione.

E, se fino ad ora, per poter dare il doppio cognome ai propri figli era necessario rivolgersi al Prefetto per ottenere l’autorizzazione all’aggiunta del cognome materno (autorizzazione che veniva rilasciata solo in presenza di determinate circostanze) oppure, per le coppie non sposate, procedere al riconoscimento dapprima da parte della madre e solo in un secondo momento da parte del padre, d’ora in poi, se la strada aperta dalla magistratura verrà percorsa, i genitori potranno invece decidere di attribuire ai figli, secondo la loro volontà, il cognome del padre o quello della madre ovvero quelli di entrambi nell’ordine concordato.

Non resta che attendere gli sviluppi.

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bigenitorialitàNonostante il principio della bigenitorialità sia stato introdotto in Italia ormai da un decennio, con la legge 54/2006 sull’affidamento condiviso, di recente si è parlato ancora di “maternal preference”, ossia di preferenza della madre nelle decisioni sull’affidamento dei minori.

Ma in cosa consiste il diritto dei figli alla bigenitoriliatà?

La bigenitorilità è il diritto  “di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”, come espressamente previsto dalla legge.

Come si attua, quindi, in concreto il diritto alla bigenitorialità quando i genitori (che fossero o meno sposati) decidono di interrompere la convivenza?

Come può garantire ai figli minori il diritto alla bigenitorialità il Giudice che deve decidere sul loro affidamento?

Anche la risposta a questa domanda si trova nella legge, che precisa che proprio per realizzare la finalità della bigenitorialità, “il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”.

Considerato che spesso mi trovo ad assistere padri separati, devo riconoscere che i Giudici, anche nei procedimenti più difficili e conflittuali, tendono ad assumere decisioni volte a tutelare effettivamente i minori, valutando, caso per caso, quale tipo di affidamento e di collocamento garantisca maggiormente non solo il diritto dei figli alla bigenitorialità, ma anche il loro diritto ad una crescita equilibrata e serena.

Del resto la legge prevede espressamente che anche dopo la separazione, “La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente”.

In un contesto che inneggia alla “bigenitorialità”, in cui i genitori sembrano finalmente partire sullo stesso piano anche davanti al Giudice che deve decidere sull’affidamento ed il collocamento dei figli, stride la sentenza n. 18087 del 14 settembre 2016 pronunciata dalla Corte di Cassazione, che, pur ammettendone la “teorica valenza scientifica” ha ritenuto “plausibilmente valorizzato” dalla Corte d’Appello il datato ed anacronistico criterio della cd. “maternal preference”, cioè il criterio che, a parità di capacità genitoriale dei due genitori, tende a preferire la madre nella decisione sul collocamento dei minori.

Tale decisione che, per come formulata, ha destato stupore e giustificato aspre critiche, sembra tuttavia già superata dall’ultima decisione dell’autorevole Nona Sezione del Tribunale di Milano, del 19 ottobre 2016, la quale ha precisato con parole inequivocabili che “il principio di piena bigenitorialità e quello di parità genitoriale hanno condotto all’abbandono del criterio della “maternal preference” a mezzo di «gender neutral child custody laws», ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore, il genitore di prevalente collocamento non potendo essere il solo genere a determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale; normative del genere sono univocamente anche quelle da ultimo introdotte in Italia dal Legislatore (in particolare, la legge 54 del 2006; ma anche la legge 219 del 2012 e il dlgs 154 del 2013)”.

I padri possono stare tranquilli: il diritto alla bigenitorialità non è solo previsto dalla legge, ma anche sempre più attuato dai Giudici italiani nelle proprie sentenze, che prescindono dal ruolo genitoriale,  optando per il collocamento presso il genitore che meglio garantisca una crescita serena ed equilibrata dei bambini.

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LRiconciliazione a riconciliazione dopo la separazione non richiede l’intervento del Giudice ed è facile da attuare.

– “Avvocato, la conosce quella vecchia canzone di Gianni Nazzaro … Mi sono innamorato di mia moglie!” – mi canticchiò il cliente, che credevo di aver ricevuto per il divorzio, considerato che era ormai passato almeno un anno dalla sua separazione.

– “Dopo la separazione ci siamo parlati ed abbiamo risolto i nostri problemi. Viviamo insieme e siamo più felici di prima” – proseguì il mio cliente, concludendo con una domanda: – “Ma ora ci dobbiamo risposare?” –

– “Ovviamente no!” – risposi io, facendogli tirare un sospiro di sollievo. – “Sa, avvocato, risposarla mi sarebbe costato più della separazione!” – mi spiegò ridendo.

Sebbene non sia usuale, i coniugi separati possono riconciliarsi in qualsiasi momento facendo cessare gli effetti della separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice né, tanto meno, un nuovo matrimonio.

La riconciliazione può avvenire in due modi alternativi:

  • con una espressa dichiarazione resa all’Ufficiale di stato civile presso il Comune ove fu celebrato o trascritto il matrimonio. In tal caso la dichiarazione di riconciliazione viene annotata a margine dell’atto di matrimonio negli archivi dello stato civile;
  • con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione. In questo caso i coniugi devono ricostituire l’unione coniugale, non solo con il ripristino della convivenza, se interrotta, ma anche con la ripresa, in tutto e per tutto, del rapporto matrimoniale.

Se prima della separazione i coniugi erano in comunione dei beni, la riconciliazione comporta la ricostituzione della comunione.

Ma cosa succede se dopo la riconciliazione il matrimonio entra di nuovo in crisi ed i coniugi decidono nuovamente di separarsi?

I coniugi che decidano di separarsi dopo la riconciliazione, dovranno rivolgersi nuovamente al Tribunale proponendo una nuova domanda di separazione e, in caso di disaccordo, il Giudice dovrà riesaminare il caso, rivalutando le condizioni economiche e patrimoniali dei coniugi al momento della nuova separazione e prendendo in considerazione i fatti avvenuti dopo la riconciliazione.

Considerato che una separazione, giudiziale o consensuale che sia, può già essere pesante sotto ogni profilo, ma una doppia separazione, in conseguenza di una riconciliazione fallita, potrebbe avere ulteriori ed imprevisti risvolti, consiglierei comunque al mio cliente un colloquio approfondito per prevenire eventuali questioni spinose.

 

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figliQuando il rapporto fra i genitori va in crisi, può accadere che uno dei genitori tenga un comportamento oppositivo nei confronti dell’altro, che può spingersi addirittura fino ad imporre ai figli di non avere più rapporti appunto con l’altro genitore.

Cosa accade se un genitore impedisce all’altro di avere frequentazioni con i propri figli?

Un tale caso è stato esaminato e valutato dal Tribunale di Roma che ha emesso al riguardo la sentenza n. 18475/15.

Chiarisce il Tribunale che, in questi casi, si parla di Sindrome da Alienazione Parentale (PAS – Parental Alienation Syndrome) “nella quale un genitore (cd. alienatore) attiva una sorta di programmatico allontanamento dei figli da e contro l’altro genitore (cd. alienato), talvolta con il pieno coinvolgimento in tal senso dei figli stessi manovrati e/o comunque influenzati allo scopo“.

Nel caso esaminato dal Tribunale, la madre della minore aveva volontariamente interrotto ogni frequentazione padre/figlia, dapprima impedendo le visite, successivamente interrompendo anche ogni contatto telefonico.

Anche i servizi Sociali incaricati di seguire la vicenda hanno riferito dell’impossibilità di contattare anche telefonicamente la madre, rendendo quindi impossibile agli stessi Servizi Sociali qualsiasi tentativo di ristabilire i rapporti di frequentazione padre/figlia.

Emerge altresì che la denigrazione operata dalla madre era rivolta non solo al padre, ma estesa all’intera famiglia, con la conseguenza che la figlia, con il tempo, non aveva potuto maturare un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l’altro genitore, né con i suoi familiari.

Con tale sentenza – che costituisce un nuovo orientamento del Tribunale – il Giudice, ritenuta evidente la sistematica denigrazione operata dalla madre, ha condannato la madre stessa a risarcire al padre il danno non patrimoniale subito in conseguenza della “alienazione parentale” messa in atto dalla donna.

Il Tribunale ha rilevato, infatti, che ciascun genitore ha diritto alla genitorialità.

Tale diritto è costituzionalmente garantito e, pertanto, la lesione dello stesso ha come conseguenza l’insorgere di un danno non patrimoniale – determinato dalla lesione di interessi inerenti la sua persona – risarcibile in via equitativa.

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Il matrimonio si fa in due e certamente si disfa in due, ma se un coniuge non vuole la separazione, l’altro la ottiene comunque?

separazione

Ogni avvocato che si occupi di diritto di famiglia, in occasione dell’inizio di una nuova separazione voluta solo da uno dei due coniugi, spesso si trova a dover sfatare quella che pare essere una convinzione molto diffusa: “Ovviamente se io non voglio la separazione, rimarremo insieme?!”, ed ogni avvocato a cui lo chiederete vi risponderà: “Ovviamente No!”.

In realtà a volte capita che la posizione del coniuge fortemente contrario alla separazione possa indurre l’altro coniuge ad accettare di “ricominciare”, ma quando l’altro coniuge è irremovibile e vuole separarsi, separazione sarà.

Da avvocato mi sono ritrovata spesso a spiegare questo concetto: la legge prevede che il vincolo matrimoniale possa tenere legati i coniugi solo sino a quando entrambi i coniugi lo vogliano.

Cosa succederà quindi se il coniuge contrario alla separazione non dovesse neppure voler discutere delle condizioni di una separazione che rifiuta di concetto?

In tal caso il coniuge che desidera la separazione non potrà far altro che rivolgersi ad un avvocato, illustrargli come vorrebbe disciplinare i rapporti con l’altro coniuge e, se ve ne sono, con i figli e far predisporre al proprio avvocato un ricorso per separazione giudiziale.

Il coniuge che si oppone alla separazione riceverà quindi una copia del ricorso con l’invito a partecipare all’udienza che il Tribunale fisserà per prendere i provvedimenti provvisori ed urgenti.

Se il coniuge che non vuole separarsi dovesse rimanere della sua idea, rifiutando anche solo di discutere le richieste avanzate dall’altro coniuge, probabilmente finirebbe per precludersi la possibilità di dire la sua sulle condizioni di una separazione che, volente o nolente, dovrà subire.

La legge, infatti, non contempla le “questioni di principio”, ma solo “questioni di diritto”: il coniuge che non prenderà posizione altro che per esprimere il proprio dissenso, si ritroverà comunque separato, perché il Tribunale non potrà far altro che dichiarare la separazione, ma si sarà precluso la possibilità di far valere i propri diritti in ordine al mantenimento ed alle modalità di visita dei figli, per esempio, aggiungendo il danno alla beffa.

Tale comportamento può avere ripercussioni particolarmente gravose se il coniuge contrario a separarsi è il coniuge ritenuto economicamente più forte, che, non difendendosi, rischia che il Tribunale assecondi tutte le richieste dell’altro coniuge, disponendo assegni di mantenimento rilevanti, modalità di visita poco consone ai propri ritmi lavorativi ed alla conservazione di un buon rapporto con i figli, pregiudicandone anche la serenità futura.

La scelta di rinunciare a far valere i propri diritti, quindi, crea i danni più gravi proprio quando il coniuge che la compie ha molto da perdere.

Se invece il coniuge che si trova a subire la decisione dell’altro dovesse quanto meno decidere di presentarsi alla prima udienza, il Giudice potrà tentare la conciliazione, anche solo allo scopo di trasformare una separazione giudiziale in una consensuale.

Il coniuge che è capace di cogliere quest’ultima opportunità, comprendendo che, indipendentemente dalla sua volontà, si ritroverà separato, riuscirà probabilmente a contrattare le modalità di gestione dei rapporti in vista di una vita da separato, evitando di compromettere anche il proprio futuro.

Naturalmente i coniugi separati possono sempre riconciliarsi e decidere di tornare a comporre una famiglia unita, senza dover ricorrere ad alcuna formalità.

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Separazione e socialDi chi è la colpa della separazione?

Nel deciderlo, i Giudici di Roma hanno considerato come prova anche le conversazioni social della moglie.

Il giudizio era stato iniziato dalla moglie, che chiedeva l’addebito della separazione al marito perché, secondo la stessa, la crisi matrimoniale era dovuta al prolungarsi dell’attività lavorativa all’estero del marito, che non era intenzionato a tornare in Italia.

Il marito, dal canto suo, ha contestato invece alla moglie di aver violato l’obbligo di fedeltà, iniziando una relazione extraconiugale e, dichiaratosi favorevole alla separazione, chiedeva che la stessa fosse addebitata alla moglie.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, per l’addebito della separazione “deve esistere un nesso di causalità tra i comportamenti addebitabili al coniuge ed il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza

I Giudici del Tribunale di Roma, svolta l’istruttoria, nel pronunciare la separazione, hanno ritenuto che la stessa non potesse addebitarsi al marito, bensì alla moglie ricorrente.

Hanno infatti rilevato, nella sentenza n. 11253/16, che nel corso del giudizio è risultato pacifico che il marito avesse svolto la propria attività all’estero già prima sia della nascita del figlio che del matrimonio, con condivisione della scelta da parte della moglie.

Il lavoro all’estero, infatti, consentiva alla famiglia di avere un tenore di vita molto più elevato di quello che sarebbe stato condotto se il marito se avesse lavorato in Italia.

Ad esempio, il figlio era stato iscritto ad una costosa scuola materna internazionale, proprio per fargli proseguire la fruttuosa esperienza fatta all’estero e consolidare l’apprendimento della lingua inglese.

Rilevanti i commenti entusiasti postati sui social dalla moglie

Ma, a far escludere l’addebito al marito, sono state le conversazioni social della donna la quale, nelle proprie chiacchierate telematiche con gli amici, risultava entusiasta dei propri frequenti viaggi a Dubai e della vita che là trascorreva, fatta di vacanze, mare, feste e divertimenti.

Peraltro, sempre sulla base delle conversazioni telematiche della donna, dal contenuto inequivocabile quanto al tenore affettivo e sessuale della relazione, i Giudici del Tribunale hanno poi ritenuto che la violazione del dovere di fedeltà coniugale da parte della donna portasse a ritenere la stessa responsabile della crisi del rapporto e, quindi, della separazione.

Accolta, pertanto, la domanda di addebito del marito nei confronti della moglie.

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divorzioL’ex coniuge, successivamente al divorzio, ha cambiato lavoro?

Potreste avere diritto ad una quota del suo TFR.

La legge n. 898 del 1970 che regola il divorzio, infatti, prevede che il coniuge ha diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto (TFR) percepita dall’altro coniuge.

Sono necessari dei requisiti per avere diritto alla quota di TFR dopo il divorzio.

I presupposti per avere diritto alla quota sono i seguenti:

  • innanzitutto, la pronuncia di una sentenza di divorzio;
  • in secondo luogo che nella sentenza sia previsto l’obbligo per un coniuge di versare periodicamente a favore dell’altro un assegno;
  • in terzo luogo, che il beneficiario dell’assegno non sia passato a nuove nozze.

A quanto ammonta la quota di TFR che spetta all’altro coniuge dopo il divorzio?

Se ricorrono tali requisiti, il coniuge beneficiario ha diritto ad una quota del TFR pari al 40% dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

Va segnalato che la legge riferisce espressamente che il diritto alla quota di TFR (indennità di fine rapporto) dell’ex coniuge è dovuta anche se l’indennità  viene a maturare dopo la sentenza. Tale previsione significa che non importa da quanto tempo è stata pronunciata la sentenza (pochi mesi o alcuni anni): il diritto alla quota sussiste sempre se ricorrono i requisiti elencati.