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La locazione di immobili può essere una risorsa economica.

locazione

Tuttavia, perché lo sia, deve essere ben gestita.

Sia in relazione alle prime fasi (scelta dell’inquilino e conclusione del contratto), sia in relazione all’interruzione dei rapporti.

A questo riguardo, abbiamo già parlato dello “Sfratto per morosità“.

Si tratta dell’ipotesi in cui, in mancanza di pagamento dei canoni da parte del conduttore, il locatore decide di interrompere il contratto chiedendo una pronuncia del Giudice.

Di seguito vedremo altri casi che si possono verificare e spiegheremo come gestire, in tali casi, l’interruzione del rapporto.

Accordo delle parti

E’ l’ipotesi più semplice.

Si verifica quando il locatore, il conduttore o entrambi, decidono di interrompere il contratto di locazione e si accordano in tal senso.

Tale accordo può intervenire in qualsiasi momento del rapporto.

In tal caso, sarà sufficiente firmare un verbale per la riconsegna dell’immobile.

Il recesso anticipato: la diversa posizione di conduttore e locatore

Quando la volontà di interrompere il rapporto proviene da una sola delle parti e non si raggiunge un accordo, intervengono regole precise.

Tali regole sono diverse a seconda che a voler interrompere il contratto sia il conduttore o il locatore.

Se previsto nel contratto di locazione, al conduttore è consentito recedere in qualsiasi momento del rapporto, mediante l’invio di una comunicazione (raccomandata o pec) al locatore.

Il conduttore, tuttavia, deve dare un preavviso di almeno 6 mesi, se non è pattuito un termine inferiore in contratto.

Anche il locatore, per poter interrompere regolarmente il contratto, deve darne comunicazione (a mezzo raccomandata o pec) al conduttore.

Il preavviso, in tal caso, è di 6 mesi per gli immobili concessi ad uso abitativo, di 12/18 mesi nel caso di attività commerciali.

Diversa, tuttavia, è la posizione del locatore che, in genere, deve attendere il sopraggiungere della scadenza prevista in contratto.

Ma attenzione.

In occasione della “prima scadenza” il locatore può recedere solo se ricorrono le ipotesi espressamente previste dalla legge.

Se non ricorrono tali ipotesi, il contratto dovrà rinnovarsi una prima volta e, solo alla seconda scadenza, potrà essere inviata la disdetta per finita locazione.

L’intimazione di licenza e di sfratto per finita locazione

Vi starete chiedendo:

E se il locatore manda regolare disdetta, ma il conduttore non se ne va? Cosa si può fare?

E’ possibile chiedere un provvedimento del Giudice.

Il locatore, infatti, può convocare il conduttore in Tribunale e chiedere che il Giudice confermi che il contratto di locazione è concluso.

Tale strumento può essere utilizzato dal locatore in due momenti:

a) prima della scadenza del contratto: in tal caso, si otterrà un provvedimento da poter attivare dopo la data di scadenza del contratto di locazione;

b) dopo la scadenza del contratto: quando si confida nel rilascio spontaneo alla scadenza, ma l’immobile non viene liberato.

Solitamente, la soluzione di cui al punto a) è preferita dal locatore quando il conduttore, ricevuta la disdetta, lascia intendere di non essere intenzionato a liberare l’immobile.

In tal modo, il locatore ottiene con anticipo il provvedimento che gli consente di agire forzosamente se il conduttore non libera spontaneamente l’immobile.

Se hai immobili concessi in locazione ed hai bisogno di maggiori informazioni, contattaci

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comodato-casa-e-crisi-coniugaleIl comodato è un contratto, disciplinato dal codice civile, in forza del quale “una parte (comodante) consegna all’altra (comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta“.

Il comodato è normalmente gratuito.

In relazione alla durata, se non è pattuito un termine per la restituzione del bene, chi riceve il bene in comodato è tenuto a restituirlo non appena gli viene richiesto da chi gli ha concesso l’utilizzo del bene (c.d. concordato “precario”).

Spesso il contratto di comodato viene utilizzato in ambito familiare.

Ad esempio, accade che i genitori concedano una casa di loro proprietà in comodato al figlio ed alla sua nuova famiglia, senza determinazione di tempo.

Poiché in questo caso il comodato è “precario” (senza determinazione di tempo), l’immobile dovrebbe essere riconsegnato al proprietario che ne faccia semplice richiesta.

La questione, invece, è più complessa.

La Cassazione si è infatti trovata ad esaminare il caso di genitori/proprietari di un appartamento che hanno chiesto la restituzione del bene dato in comodato al figlio ed alla nuora.

La richiesta di restituzione era dovuta al fatto che la nuova famiglia stava affrontando una crisi coniugale ed i genitori/proprietari volevano tutelare il proprio patrimonio (l’appartamento) dalla suddetta crisi.

Tuttavia, la Corte di Cassazione, con la propria sentenza n. 13.716 del 31 maggio 2017, ha ribadito che, quando l’immobile è stato concesso in uso alla nuova famiglia, anche se non è prevista una durata, il comodato non può ritenersi un normale “comodato precario” ed il proprietario non può quindi pretendere la restituzione in forza della semplice richiesta.

Infatti, sebbene non sia stata determinata la durata del contratto di comodato, è evidente che lo stesso è vincolato dalla speciale “destinazione d’uso”.

La casa oggetto di comodato, infatti, deve ritenersi concessa in uso proprio per soddisfare le esigenze abitative di un nucleo familiare (quello del figlio e della sua nuova famiglia).

Per la Suprema Corte, questa “destinazione d’uso” prevale sulla mancanza del termine di durata.

La destinazione dell’immobile ad esigenze abitative di un nucleo familiare supera il diritto del proprietario alla restituzione dell’immobile concesso in comodato

Con la conseguenza che i genitori comodanti sono tenuti a consentire la continuazione del godimento anche in presenza di una crisi coniugale ed oltre la crisi coniugale stessa.

Unica eccezione, il sopraggiungere di un urgente e imprevisto bisogno del comodante.

In tal caso, spetterà al Giudice valutare la situazione e decidere se attribuire prevalenza ai bisogni del comodante o alle esigenze di tutela della nuova famiglia e della prole.

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animali-selvaticiPercorrendo strade di montagna o posizionate vicino a zone boschive, può accadere di avere un “incontro ravvicinato” con animali selvatici.

Se il nostro veicolo subisce danni, chi paga?

In caso di incidente con animali selvatici, l’Ente può essere ritenuto responsabile

In una sua pronuncia (sentenza n. 232/16), il Giudice di Pace di Lanciano ha condannato la Regione Abruzzo a risarcire il danno in base alle fatture di meccanico e carrozziere depositate in giudizio.

Il malcapitato automobilista si era infatti scontrato con un cinghiale percorrendo una strada statale in un tratto in cui non era presente il segnale di pericolo di attraversamento di animali selvatici.

Il Giudice di Pace, esaminate tutte le circostanze dell’incidente, ha ritenuto che la Regione non ha adottato tutte le misure idonee ad evitare il fatto (cioè l’incidente causato dall’attraversamento del cinghiale).

Ha quindi confermato la presenza di una condotta colposa ex art. 2043 c.c. in carico alla Regione.

Bisogna tuttavia precisare che, nel caso esaminato, ha avuto peso non solo la mancanza di segnaletica, ma anche la circostanza, ad esempio, che in zona era in atto un ripopolamento di cinghiali.

Pertanto, poteva essere prevedibile l’attraversamento della strada da parte di qualche esemplare e la Regione avrebbe dovuto attivarsi in modo idoneo non solo per segnalare la circostanza, ma anche per evitarla.

Tale precisazione è importante perché la decisione del Giudice di Pace (che dichiara responsabile la Regione) non stabilisce un principio generale, ma è applicabile solo nel caso esaminato.

Quindi, non si può affermare che ogni volta che si subiscono danni a seguito di scontro con animali selvatici la responsabilità debba essere addebitata all’Ente (Regione o Provincia o ANAS).

La sola mancanza di segnaletica non è sufficiente per poter considerare responsabile l’Ente

La Corte di Cassazione, infatti, precisa che “occorre la allegazione o quantomeno la specifica indicazione di una condotta omissiva” (Cass. civ. 9276/2014).

Non può quindi ritenersi sufficiente, per dichiarare la responsabilità dell’Ente, la sola mancanza di segnalazioni stradali di pericolo di attraversamento di animali selvatici, ma devono essere presenti anche altri elementi (ad esempio, il fatto che l’Ente abbia gestito in modo inadeguato la fauna per la anomala incontrollata presenza di molti animali).

Ogni episodio, quindi, va esaminato in tutti i suoi aspetti.

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risarcimento del danno non patrimonialeIl risarcimento del danno non patrimoniale è soggetto a dibattiti giurisprudenziali sempre aperti ed è perciò materia complessa in continua evoluzione.

Senza avere la pretesa di esaurire l’argomento, cerchiamo in questo articolo di spiegare nel modo più semplice possibile quando è dovuto e come si calcola il risarcimento del danno non patrimoniale.

Quando è dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale?

A differenza del risarcimento del danno patrimoniale, del quale abbiamo già parlato in questo blog, il risarcimento del danno non patrimoniale, secondo quanto espressamente previsto dall’articolo 2059 del codice civile, si attua solo nei casi determinati dalla legge.

Ma quali sono i casi determinati dalla legge?

Il caso previsto dalla legge che indubbiamente viene più spesso invocato è il caso in cui la lesione subita dal danneggiato derivi da un fatto di reato.

L’articolo 185 del codice penale, infatti, prevede espressamente che “ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole“.

Tutti sanno che a seguito di un sinistro stradale, la persona che abbia subito una lesione ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale subito, ma pochi sanno cosa determina questo diritto.

Il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla persona che subisca una lesione fisica, per esempio, in un sinistro stradale o anche in un infortunio sul lavoro, sorge in conseguenza del reato di lesioni personali di cui si rende artefice il responsabile del danno.

Il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale si fonda quindi su un fatto di reato, ma sorge  indipendentemente dal fatto che il reato sia stato oggetto di una denuncia-querela da parte del danneggiato.

E’ infatti sufficiente che il fatto dannoso si possa qualificare come fatto di reato e non serve una condanna penale perché il danneggiato possa vantarne il risarcimento.

Quale danno può essere risarcito e come si calcola il risarcimento?

Il risarcimento del danno non patrimoniale ha la funzione di riparare a qualunque tipo di compromissione, fisica o morale, che il danneggiato abbia dovuto sopportare in conseguenza di un fatto illecito.

Sebbene il danno non patrimoniale abbia natura unitaria, convenzionalmente si distingue in danno biologico, danno morale e danno esistenziale anche allo scopo di descrivere il tipo di danno subito e di effettuare una più agevole quantificazione dello stesso.

Il danno biologico

Il danno biologico è la lesione – che può essere temporanea o permanente – alla integrità fisica o psichica della persona, che possa essere accertata da un medico e che produce un effetto negativo sulle attività quotidiane e vita sociale e di relazione del danneggiato.

Il danno biologico prescinde dal reddito della persona danneggiata e dalla sua capacità produttiva, che incidono invece sul danno patrimoniale.

Il danno morale

Il danno morale è una voce del danno non patrimoniale che rappresenta la sofferenza soggettiva e il turbamento emotivo causati al danneggiato dal fatto illecito subito.

Il danno esistenziale

Il danno esistenziale è così denominato perché identifica il danno all’esistenza stessa della persona danneggiata, che si può oggettivamente accertare, in quanto consiste un un peggioramento della qualità di vita, a causa dell’alterazione delle sue abitudini e degli assetti relazionali, inducendolo a scelte di vita diverse.

La quantificazione del risarcimento del danno non patrimoniale è frutto di una convenzione, non essendo possibile attribuire un prezzo al dolore di una persona.

Fatta tale doverosa precisazione, vediamo come si calcola il risarcimento del danno non patrimoniale.

La legge n. 57 del 2001 ha previsto espressamente la quantificazione del risarcimento del danno dovuto alla circolazione stradale, ma tale previsione è limitata al solo danno biologico che abbia prodotto lesioni permanenti in misura non superiore al 9% (cd. micropermanenti) e al danno biologico temporaneo relativo ed è limitata appunto ai soli danni prodotti da sinistri stradali.

E’ infatti doveroso precisare che non esiste in Italia una normativa organica che disciplini il risarcimento del danno non patrimoniale, la cui quantificazione, quando il danno è grave (cd. macropermanenti) o non deriva dalla circolazione stradale, è lasciata al libero apprezzamento del giudice.

Al fine di dare un minimo di organicità alla quantificazione di tale danno, tuttavia, alcuni Tribunali, tra i quali il Tribunale di Milano ed il Tribunale di Roma, hanno prodotto tabelle volte a fornire al Giudice un criterio più o meno uniforme per la quantificazione del danno non patrimoniale, rapportandolo all’entità della lesione fisica subita dal danneggiato in termini percentuali ed all’età del soggetto danneggiato.

Tanto più è giovane il soggetto danneggiato e tanto più grave è la lesione subita, tanto maggiore sarà l’entità del risarcimento riconosciuto.

Nella seduta del 21/03/2017 la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge n° 1063-A recante “Modifiche alle disposizioni per l’attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale”.

In disegno di legge è quindi ora al vaglio del Senato e la materia sarà quindi presto rivoluzionata nell’ottica di uniformare i risarcimenti.

 

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aumento dell'assegno di mantenimentoQuando sorge il diritto all’aumento dell’assegno di mantenimento?

L’assegno di mantenimento per il coniuge economicamente più debole può essere sempre soggetto ad una revisione, sia in aumento che in riduzione, quando cambiano le condizioni che avevano indotto il Giudice a determinarlo.

Ciò significa, per esempio che il coniuge onerato dell’assegno di mantenimento, il quale, per ragioni indipendenti dalla propria volontà, subisca un netto peggioramento della propria condizione economica, può sempre richiedere al Giudice una revisione del contributo, in modo da adeguarlo alla diminuzione della propria capacità contributiva.

L’aumento dell’assegno di mantenimento è dovuto ogni volta che migliorano le condizioni economiche del coniuge che vi è tenuto?

L’aumento dell’assegno di mantenimento può essere certamente richiesto quando aumentano le esigenze economiche dei figli, ovvero a fronte di un grave peggioramento delle condizioni economiche del coniuge che ne è beneficiario.

Ma vale sempre anche il contrario?

Il sensibile miglioramento delle condizioni economiche di chi è tenuto al pagamento fa nascere spesso richieste di aumento dell’assegno di mantenimento da parte dell’altro.

Non sempre tuttavia tali richieste sono fondate.

E’ tipico il caso della vincita alla lotteria o al superenalotto.

Il fortunato vincitore della lotteria, non dovrà subire l’aumento dell’assegno di mantenimento in favore dell’ex coniuge.

Ma perché no?

La vincita alla lotteria è un evento occasionale e straordinario che non ha nulla a che vedere con il tenore di vita goduto dalla famiglia durante il matrimonio, né trova il proprio fondamento nell’attività svolta dal coniuge vincitore durante la convivenza.

La Corte di Cassazione si è pronunciata in tal senso, escludendo la possibilità che i miglioramenti che hanno origine da eventi autonomi, non collegati alla situazione ed alle aspettative maturate nel corso del matrimonio, possano dar luogo all’aumento dell’assegno di mantenimento cui il coniuge che ne ha beneficiato è già tenuto.

Tali eventi hanno infatti carattere di eccezionalità, poiché derivano da circostanze del tutto occasionali e imprevedibili e, non trovando fondamento nel rapporto matrimoniale ormai cessato, non possono influire sul rapporto economico tra gli ex coniugi.

Al contrario, se l’arricchimento del coniuge è in effetti la naturale e prevedibile conseguenza dell’attività già avviata nel corso del matrimonio, l’ex coniuge avrà diritto all’aumento dell’assegno di mantenimento.

Per esempio, l’imprenditore che durante il matrimonio getta le basi dell’attività e ne raccoglie i frutti con un sensibile aumento del proprio reddito solo dopo la separazione, farà probabilmente sorgere il diritto da parte dell’ex coniuge all’aumento di un assegno di mantenimento determinato in un momento in cui ancora l’attività non era fiorita.

L’avvocato divorzista è spesso chiamato a rispondere a questioni simili, ed altrettanto spesso le circostanze del singolo caso sono tanto importanti da poter fare la differenza tra l’esistenza di un diritto o la sua negazione.

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separazione consensualeLa separazione consensuale è la procedura che la legge prevede per consentire ai coniugi di separarsi legalmente di comune accordo.

Il presupposto della separazione consensuale, quindi, è che i coniugi trovino un accordo per regolamentare la propria vita da separati.

I coniugi devono concordare le modalità di affidamento condiviso e il mantenimento dei figli minori, l’assegnazione della casa coniugale e la divisione dei beni comuni.

La parte più delicata è dunque proprio la trattativa tra i coniugi per definire le condizioni della separazione.

Poiché gli accordi presi in questa fase saranno vincolanti per i coniugi, è importante avvalersi della consulenza e dell’assistenza di un avvocato divorzista, che consenta agli interessati di comprendere pienamente i propri diritti ed i propri doveri.

Con la separazione consensuale è inoltre possibile definire anche i rapporti patrimoniali tra i coniugi agevolandosi dell’esenzione fiscale.

Ogni trasferimento, anche immobiliare, deciso dai coniugi in sede di separazione consensuale, infatti, gode di una totale esenzione fiscale.

Ma basta l’accordo dei coniugi a dare efficacia alla separazione consensuale?

In realtà l’accordo dei coniugi è solamente il presupposto per la separazione consensuale; presupposto essenziale ma non è sufficiente.

Affinché i coniugi possano essere legalmente separati, infatti, è necessario che venga posta in essere una procedura volta ad ottenere l’omologazione della separazione consensuale da parte del Tribunale competente.

I termini dell’accordo raggiunto dovranno essere quindi riportati in un apposito ricorso che sarà depositato nell’apposita cancelleria del Tribunale dell’ultima residenza comune dei coniugi.

Il Tribunale fisserà poi un’udienza, alla quale dovranno partecipare entrambi i coniugi per confermare le condizioni di separazione già raccolte nel ricorso.

Dal giorno dell’udienza decorrerà quindi il termine semestrale, scaduto il quale i coniugi separati avranno facoltà di divorziare.

La separazione consensuale, dunque, a differenza della separazione giudiziale, consente ai coniugi di separarsi in tempi relativamente brevi, senza rovinarsi economicamente, definendo i rapporti patrimoniali e, soprattutto in presenza di figli minori, gettando le basi per un sereno rapporto.

Si tratta quindi spesso solo di scegliere la via più semplice e rapida per separarsi ed iniziare una nuova vita.

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Avvocato Elena SestiniSepararsi serenamente è solo una chimera o un un obiettivo realizzabile?

La separazione è sempre un momento difficile, non solo per i coniugi, ma per l’intera famiglia.

Da avvocato seguo spesso situazioni rese difficili ed inasprite dalle stesse tensioni che hanno originato la separazione.

Eppure da fuori sembra semplice: se i coniugi si separano proprio per tornare a vivere sereni, perché continuano a riproporsi l’un l’altro le stesse dinamiche che li hanno resi infelici?

La separazione dovrebbe costituire uno spartiacque tra la vita coniugale ed una nuova vita.

Ma quali sono i punti critici che dovranno essere sciolti per consentire ai coniugi di separarsi serenamente?

Quando i coniugi non hanno  figli, solitamente separarsi serenamente è più facile.

Una volta diviso il patrimonio, la vita riprende, sia pure con altri ritmi.

Nuova casa, nuove abitudini, nuovi rapporti e magari anche nuovi amici.

Rimane un unico strascico possibile: l’assegno di mantenimento.

Spesso l’assegno di mantenimento per il coniuge più debole resta l’unico filo sottile che continua a tenere legati i coniugi separati senza figli.

L’assegno di mantenimento al coniuge separato è, quindi, su entrambi i fronti, un tema caldo, che dovrà essere ben ponderato da ciascun coniuge con il proprio avvocato e costituirà in certi casi proprio il punto critico da sciogliere per consentire ai coniugi di separarsi serenamente.

La legge offre soluzioni alternative all’assegno periodico solo in occasione del divorzio, nulla vieta tuttavia di poter modulare il diritto al ricevimento dell’assegno con delimitazioni temporali ovvero legate ad un’occasione di lavoro.

La soluzione migliore, non solo consentirà ai coniugi di separarsi serenamente ma, probabilmente, anche di arrivare ad un sereno divorzio.

Quando però i coniugi hanno formato una famiglia, i figli sono certamente i primi a risentire della separazione ed a renderla quindi ancora più difficile per entrambi i genitori.

Risolvere i problemi legati alla gestione dei figli , infatti, può consentire di separarsi serenamente.

Sembra facile, vero?

In realtà è normale  che i coniugi, ancora troppo focalizzati ciascuno sulle proprie rivendicazioni, non siano in grado di spostare l’attenzione da sé ai figli.

Sarà quindi l’avvocato a dover focalizzare l’attenzione dei coniugi in questa direzione per far prevalere in loro il sentimento genitoriale.

In verità, è la legge stessa che indica le linee guida per la gestione dei figli dopo la separazione dei genitori e che invita i coniugi a privilegiare, per quanto possibile, la continuità per i figli.

In tal senso si devono leggere le norme sull’assegnazione della casa al coniuge che prevalentemente vivrà con i figli e sempre in tal senso viene determinato l’assegno di mantenimento per i figli da parte dell’altro genitore.

Se poi il punto critico della separazione sarà proprio la decisione di chi dovrà vivere con i figli, un buon suggerimento è quello di considerare nuovamente il criterio della continuità.

Quale dei due genitori è stato nel corso della convivenza il genitore di riferimento per i figli?

Quale dei due genitori, cioè, si è sempre occupato dei figli in modo prevalente rispetto all’altro?

Ancor più semplicemente: chi si è sempre occupato di svegliare i bambini al mattino, di preparare loro la colazione, di prepararli per l’asilo o la scuola e magari anche di portarceli? Chi parla con le maestre? Chi gestisce i rapporti con gli amichetti ed i loro genitori? Chi compra loro vestiti e scarpe? Chi porta i figli dal medico quando sono malati? Chi somministra loro le medicine? Chi li lava, li cambia, li mette a letto la sera?

Salvo rari casi, in ogni famiglia, sebbene qualche compito sia distribuito, uno solo è il genitore di riferimento.

Ciò non significa che l’altro genitore sia meno importante, anzi, la sua presenza nella vita dei figli anche dopo la separazione è tutelata dalla legge e dovrà essere resa effettiva.

Spesso sarà proprio l’avvocato a dover aiutare l’altro genitore a dare il giusto ascolto alle esigenze dei figli ed a riconoscere, quindi, il ruolo dell’altro genitore nella loro vita.

In merito devo dire che, per esperienza, non sorgono grandi problemi in tal senso quando il genitore di riferimento è la mamma, perché i padri sono generalmente disposti a riconoscerle il proprio ruolo.

Non sempre accade lo stesso nei – certo più rari – casi in cui il genitore di riferimento è il papà.

Sebbene in questi casi la mamma abbia lasciato al padre il ruolo preminente nella gestione quotidiana dei figli anche nel corso della convivenza, spesso non è disposta a riconoscerlo e allora questo diventa il punto cruciale da superare per potersi separare serenamente.

Separarsi serenamente è dunque possibile, quando i coniugi o i genitori sono in grado di riconoscere il punto critico della separazione e risolverlo mettendo da parte le rivendicazioni che li hanno portati alla separazione.

 

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mantenimento-alla-ex-moglieNell’ambito della separazione, il marito considera spesso un’ingiustizia dover corrispondere il mantenimento alla ex moglie.

La separazione è un momento difficile per i coniugi sotto ogni profilo e quello economico non è da sottovalutare.

Nell’ambito della separazione, infatti, il coniuge economicamente più forte – che spesso è appunto ancora il marito – può subire risvolti rilevanti, se il tenore di vita della famiglia è sempre stato sostenuto dai suoi redditi.

Il mantenimento alla ex moglie è dovuto anche se lei è laureata, ha un’abilitazione professionale e, almeno in teoria, una rilevante capacità reddituale?

Questo è proprio il caso di recente affrontato dalla Corte di Cassazione.

Marito professionista, moglie casalinga, un figlio maggiorenne ma non ancora autosufficiente.

Il marito gode, oltre che di redditi professionali, di un cospicuo patrimonio immobiliare e di altri beni che evidenziano uno standard di vita piuttosto elevato.

La moglie, pur se laureata ed in possesso di un’abilitazione professionale, non ha mai lavorato e si è sempre dedicata alla famiglia.

Per decidere se e in che misura sia dovuto il mantenimento alla ex-moglie da parte del marito, i Giudici hanno considerato il tenore di vita goduto dai coniugi nel corso della convivenza e raffrontato le capacità economico-patrimoniali di entrambi, senza limitarsi al solo reddito dichiarato ai fini fiscali.

Nel caso in questione i Giudici non hanno avuto dubbi: spetta il mantenimento alla ex moglie, oltre che al figlio.

La valutazione delle capacità economiche dei coniugi, infatti, deve essere fatta in concreto, non in astratto.

La signora, pur se teoricamente in grado di sfruttare le opportunità legate al titolo di studio universitario ed all’abilitazione professionale a suo tempo conseguita, non avendo mai lavorato, di fatto, incontrerebbe non poche difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro in tarda età e senza alcuna esperienza.

D’altra parte, il marito ha dimostrato indubbie capacità reddituali, legate anche al patrimonio a sé intestato.

Più è elevato il tenore di  e più, nell’ambito della separazione, il coniuge economicamente forte, rischia di essere onerato del mantenimento all’altro coniuge, oltre che di vedersi privato della casa coniugale che, pur se di sua proprietà, deve essere assegnata al coniuge che vivrà con i figli minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti.

La separazione può essere quindi molto costosa per il marito che, grazie alla propria attività, professionale o imprenditoriale ha sempre garantito alla famiglia un tenore di vita elevato.

Il mantenimento della ex moglie deve essere parametrato al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale.

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affidamento dei figli al papàL’affidamento dei figli al papà non è più un miraggio.

In dieci anni anche i tribunali hanno fatto passi da gigante nella direzione di una valutazione paritaria dei ruoli genitoriali.

L’affidamento dei figli al papà è un diritto dei bambini stessi, quando ve ne sono i presupposti.

Quando, per esempio, è il papà ad essere il genitore che costituisce il loro riferimento nella vita quotidiana.

Quale dei due genitori si è sempre organizzato per crescere, educare ed accudire i figli, magari sacrificando la carriera ed il proprio tempo libero?

Se la risposta è la mamma, come ancora oggi accade nella maggioranza dei casi, sarà la mamma il genitore di riferimento.

Se però la risposta è il papà, sebbene sia certamente un caso meno frequente, ebbene sarà proprio il papà, il genitore di riferimento dei bambini.

Spesso mi trovo ad assistere padri che, nell’ambito di una separazione, possono indiscutibilmente vantare di essere il genitore di riferimento per i figli.

Eppure, anche questi padri faticano a credere di poter vedere riconosciuto da un Tribunale il proprio diritto a continuare a vivere con i figli.

Spesso tali papà sono terrorizzati all’idea di dover lasciare i bambini ad una madre che non è mai stata disposta a fare altrettanto.

E’ infatti ancora fortemente radicata nella nostra cultura la convinzione che sia la mamma a dover crescere i bambini.

Si crede quindi ancora che il padre possa avere qualche speranza di tenere con sé i figli, nell’ambito della separazione, solo se la madre è palesemente inadeguata.

In realtà, ormai da un decennio, il bambino ha diritto alla bi-genitorialità.

E’ quindi un diritto del bambino mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, anche dopo la separazione.

Questo diritto si traduce, in Tribunale,in primis, nell’affidamento condiviso, che costituisce ormai il tipo di affidamento privilegiato.

In secondo luogo, il Giudice dovrà valutare, nell’interesse esclusivo dei figli, con quale genitore i bambini debbano continuare a vivere.

Nella valutazione del Giudice, la madre non parte più avvantaggiata per il solo fatto di essere la madre.

Il Giudice, infatti, sarà tenuto a decidere per l’affidamento dei figli al papà, quando ve ne siano i presupposti.

La decisione del Giudice dovrà quindi fondarsi sulla necessità di dare ai figli minorenni la maggiore stabilità e serenità possibile.

Stabilità e serenità che sono garantite, verosimilmente, dal genitore che è sempre stato il loro prevalente punto di riferimento.

Il Giudice valuterà altresì che il genitore che vivrà con i bambini garantisca all’altro di mantenere rapporti significativi con loro.

Se il papà risulterà essere il genitore di riferimento dei bambini e darà altrettante garanzie di poterlo continuare ad essere, consentendo anche alla madre di poter mantenere un rapporto significativo con i figli, il Tribunale non potrà che decidere per l’affidamento dei figli al papà, a prescindere dall’idoneità genitoriale della madre.

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bigenitorialitàNonostante il principio della bigenitorialità sia stato introdotto in Italia ormai da un decennio, con la legge 54/2006 sull’affidamento condiviso, di recente si è parlato ancora di “maternal preference”, ossia di preferenza della madre nelle decisioni sull’affidamento dei minori.

Ma in cosa consiste il diritto dei figli alla bigenitoriliatà?

La bigenitorilità è il diritto  “di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”, come espressamente previsto dalla legge.

Come si attua, quindi, in concreto il diritto alla bigenitorialità quando i genitori (che fossero o meno sposati) decidono di interrompere la convivenza?

Come può garantire ai figli minori il diritto alla bigenitorialità il Giudice che deve decidere sul loro affidamento?

Anche la risposta a questa domanda si trova nella legge, che precisa che proprio per realizzare la finalità della bigenitorialità, “il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”.

Considerato che spesso mi trovo ad assistere padri separati, devo riconoscere che i Giudici, anche nei procedimenti più difficili e conflittuali, tendono ad assumere decisioni volte a tutelare effettivamente i minori, valutando, caso per caso, quale tipo di affidamento e di collocamento garantisca maggiormente non solo il diritto dei figli alla bigenitorialità, ma anche il loro diritto ad una crescita equilibrata e serena.

Del resto la legge prevede espressamente che anche dopo la separazione, “La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente”.

In un contesto che inneggia alla “bigenitorialità”, in cui i genitori sembrano finalmente partire sullo stesso piano anche davanti al Giudice che deve decidere sull’affidamento ed il collocamento dei figli, stride la sentenza n. 18087 del 14 settembre 2016 pronunciata dalla Corte di Cassazione, che, pur ammettendone la “teorica valenza scientifica” ha ritenuto “plausibilmente valorizzato” dalla Corte d’Appello il datato ed anacronistico criterio della cd. “maternal preference”, cioè il criterio che, a parità di capacità genitoriale dei due genitori, tende a preferire la madre nella decisione sul collocamento dei minori.

Tale decisione che, per come formulata, ha destato stupore e giustificato aspre critiche, sembra tuttavia già superata dall’ultima decisione dell’autorevole Nona Sezione del Tribunale di Milano, del 19 ottobre 2016, la quale ha precisato con parole inequivocabili che “il principio di piena bigenitorialità e quello di parità genitoriale hanno condotto all’abbandono del criterio della “maternal preference” a mezzo di «gender neutral child custody laws», ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore, il genitore di prevalente collocamento non potendo essere il solo genere a determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale; normative del genere sono univocamente anche quelle da ultimo introdotte in Italia dal Legislatore (in particolare, la legge 54 del 2006; ma anche la legge 219 del 2012 e il dlgs 154 del 2013)”.

I padri possono stare tranquilli: il diritto alla bigenitorialità non è solo previsto dalla legge, ma anche sempre più attuato dai Giudici italiani nelle proprie sentenze, che prescindono dal ruolo genitoriale,  optando per il collocamento presso il genitore che meglio garantisca una crescita serena ed equilibrata dei bambini.