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avvocato divorzistaLa crisi della coppia è un momento estremamente delicato nella vita di un marito e ancor più di un padre.

Oltre all’ovvia sofferenza psicologica, infatti, la separazione porta con sé la necessità di ridefinire integralmente i contorni dell’esistenza dei coniugi e i rapporti economici e genitoriali per trasformarli in un

Quando uno dei due coniugi decide di non voler proseguire la convivenza matrimoniale, pertanto, è fondamentale rivolgersi ad un avvocato divorzista esperto in diritto di famiglia, allo scopo di valutare ogni possibile risvolto della crisi e affrontare la situazione nel modo più sereno possibile e tutelare i propri diritti.

Quali sono le domande da rivolgere all’avvocato divorzista prima di avviare la separazione?

Per affrontare una separazione è necessario che la persona, soprattutto se è l’uomo della coppia, sia ben informata di tutto ciò che può accadere nella gestione della crisi familiare e di come si svolgono le tappe di separazione e divorzio.

Innanzitutto, prima di poter arrivare al divorzio la legge italiana prevede – salvi casi eccezionali che qui non si affronteranno – che debba necessariamente avvenire la separazione dei coniugi.

Che differenza c’è tra separazione e divorzio?

Rimandando ad altro recente articolo l’approfondimento sulle differenze tra divorzio e separazione, l’avvocato divorzista dovrebbe quanto meno spiegare che:

  • la separazione sospende i doveri coniugali tipici (per es. l’obbligo di coabitazione e di fedeltà), ma anche dopo la separazione i coniugi restano sposati (con ogni effetto conseguente anche sotto il profilo ereditario);
  • il divorzio scioglie definitivamente gli effetti civili del matrimonio e vi pone fine, tanto che gli ex-coniugi possono contrarre un nuovo matrimonio.

Quanto tempo ci vuole per ottenere la separazione?

Un avvocato divorzista non può che rispondere  a questa domanda che con il classico “dipende”.

La separazione, infatti, può essere ottenuta in modi e tempi molto diversi a seconda di quanto è litigiosa la coppia e di quanto sono lontane le rispettive posizioni.

La separazione consensuale

Se i coniugi sono in grado di accordarsi su tutti i temi che al momento della separazione si devono disciplinare (affidamento, collocamento e mantenimento dei figli, assegnazione della casa coniugale, mantenimento del coniuge debole), si potrà ottenere una separazione consensuale.

Spesso ho sentito dire frasi del tipo “Mia moglie non mi concede la separazione consensuale“, come se la separazione consensuale fosse un oggetto che si consegna.

In realtà perché si possa avere una separazione consensuale è necessaria una trattativa, la cui durata dipende, nuovamente, dalla capacità transattiva delle parti e dalla loro volontà di raggiungere un accordo.

Come avvocato divorzista mi è capitato di raggiungere un accordo con un solo incontro in presenza dei due coniugi e dei due avvocati, ma mi è altresì capitato di dover affrontare lunghe trattative che talvolta si sono positivamente concluse con un accordo e talaltra, invece, si sono concluse con una frattura insanabile che ha portato ad una separazione giudiziale.

La separazione giudiziale

Salvo che non vi siano ragioni di gravità ed urgenza (maltrattamenti, violenze, tossicodipendenze o alcoolismo, per esempio), nessun avvocato divorzista serio avvierà mai una separazione depositando un ricorso per separazione giudiziale, senza neppure aver tentato la via della trattativa per comprendere se vi siano i presupposti per una separazione consensuale.

Tuttavia, talvolta, la distanza delle posizioni rispettive tenute dai coniugi non rende possibile il raggiungimento di un accordo.

In tal caso uno dei due coniugi dovrà depositare un ricorso per separazione giudiziale al Tribunale competente, al fine di ottenere dal Giudice ciò che non sono riusciti ad ottenere dall’altro coniuge.

La separazione giudiziale parte dunque con un ricorso, in seguito al quale il Tribunale fissa un’udienza, prima della quale, dopo la riforma Cartabia, gli avvocati divorzisti di entrambe le parti dovranno depositare diversi scritti difensivi, esponendo le diverse posizioni, rivolgendo al Giudice le rispettive richieste e proponendo prove documentali e testimoniali.

Il Giudice alla prima udienza ascolterà entrambe le parti personalmente e tenterà di conciliare le rispettive posizioni per consensualizzare la separazione.

Per esperienza, sebbene la riforma Cartabia abbia introdotto una procedura che ha come effetto quello di inasprire il conflitto prima dell’incontro in Tribunale, il Giudice in udienza ha spesso l’autorevolezza necessaria per convincere le parti a limare le rispettive asperità e trovare il giusto punto d’incontro per consensualizzare la separazione.

Quando tuttavia neppure il Giudice riesce a far accordare le parti, il giudizio proseguirà e il Giudice dovrà decidere se ascoltare i testimoni eventualmente indicati dalle parti e prendere i provvedimenti provvisori e urgenti, o se incaricare un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) per dirimere conflitti per esempio sul collocamento prevalente dei figli minori o sui redditi effettivi delle parti o su altre questioni rilevanti per le quali ritenga di doversi avvalere di un esperto.

Il Giudice potrebbe anche ritenere la causa pronta per essere definita e, come spesso accade, non ascoltare i testimoni indicati dalle parti, né avviare alcuna CTU e, in tal caso, la causa si avvierà verso la sua conclusione.

Con chi vivranno i figli dopo la separazione?

Dopo la separazione i figli minorenni continueranno a vivere insieme al genitore che sarà ritenuto il genitore di riferimento che, al contrario di quanto spesso si ritiene, non è necessariamente la mamma.

Mi è capitato spesso di parlare con padri che, pur essendo indubbiamente i genitori di riferimento dei propri figli, si erano già sentiti dire dalle rispettive moglie che sarebbero stati loro a lasciare la casa coniugale ed a pagare un mantenimento per i figli. In realtà la circostanza non è né vera, né scontata.

Il padre e la madre, infatti, sono ormai posti sullo stesso piano dal principio di bigenitorialità.

Se, dunque, durante il matrimonio era il padre ad essersi occupato in prevalenza dei figli, magari perchè la madre era più impegnata del marito a fare carriera, è il padre ad aver diritto di continuare a vivere con i bambini e ad ottenere il collocamento prevalente degli stessi.

Ciò detto, non intendo illudere i padri sostenendo che sia un’impresa facile, anche quando ve ne siano i presupposti, farsi riconoscere dalla moglie ciò che di fatto si sarebbero guadagnati sul campo.

Al contrario di quanto accade a parti invertite, infatti, al momento della separazione, spesso una madre fatica a riconoscere di aver lasciato al marito il ruolo di genitore di riferimento per i figli anche quando è conclamato che fosse il marito a gestire in prevalenza i bambini ed a soddisfare i loro bisogni nel corso del matrimonio.

Ritengo, come avvocato divorzista, che tale inclinazione dipenda anche dal disvalore sociale che ancora si attribuisce ad una madre che non convive in via prevalente con i figli, senza considerare che la “parità dei sessi” obbliga necessariamente le madri che vogliono fare carriera a lasciare che i padri acquistino un ruolo più rilevante anche all’interno dell’organizzazione famigliare.

Sempre più spesso accade, infatti, che i genitori gestiscano i figli, durante il matrimonio, in modo assolutamente paritario, spartendosi equamente i compiti di cura e accudimento degli stessi.

In tal caso, al momento della separazione, dovrà essere privilegiato un collocamento paritario che consenta ai bambini di continuare a godere della vicinanza di entrambi i genitori, come avveniva prima della loro separazione.

In ogni caso, proprio grazie al diritto dei figli di mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori ed i rispettivi rami parentali, nessuno dei due genitori dovrebbe ormai rischiare di “perdere” i propri figli e nessuno dei due genitori dovrebbe mai “portar via i figli” all’altro.

Anche nel caso in cui i figli debbano essere collocati in via prevalente ad uno dei due genitori, grazie all’affidamento condiviso, entrambi i genitori manterranno integra la propria responsabilità genitoriale e potranno godere di un diritto di visita tanto ampio quanto sarà ritenuto opportuno nell’interesse dei minori.

 Chi potrà continuare a vivere nella casa coniugale?

Il genitore di riferimento, oltre al collocamento prevalente dei bambini presso di sé, avrà altresì il diritto di continuare a vivere nella casa coniugale insieme ai figli, ottenendone l’assegnazione.

La legge prevede, infatti, che il Giudice debba salvaguardare il diritto dei figli a conservare, anche a seguito della separazione dei genitori, le proprie abitudini di vita quotidiana, rimanendo a vivere nella casa coniugale insieme al genitore dal quale sono prevalentemente accuditi.

In ragione di ciò, anche se entrambi i genitori avranno l’affidamento condiviso dei figli minorenni, se uno dei due genitori avrà il collocamento prevalente dei bambini presso di sé, avrà diritto di continuare a vivere con i figli nella casa coniugale a prescindere da chi ne sia il proprietario.

Se la casa coniugale fosse in affitto, il genitore a cui verrà assegnata avrà diritto di subentrare nel contratto di locazione (se intestato al coniuge) alle medesime condizioni vigenti e il proprietario di casa non avrà facoltà d’impedirlo.

Mia moglie ha diritto a un assegno di mantenimento?

Nel corso della mia carriera di avvocato divorzista, spesso ho dovuto fronteggiare con i miei clienti richieste di assegno di mantenimento da parte di mogli che nella maggioranza dei casi non ne avevano diritto.

Quando spetta alla moglie l’assegno di mantenimento? Questo chiarimento compete all’avvocato divorzista.

L’assegno di mantenimento personale può essere richiesto dalla moglie quando non abbia un reddito proprio che le consenta di mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.

E’ tuttavia evidente che, in molti casi, a seguito della separazione, duplicando i costi, nessuno dei due coniugi potrà mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Inoltre il Giudice dovrà tenere in considerazione anche altri fattori.

E’ vero infatti che la casa coniugale viene assegnata al genitore prevalente perché possa continuare a vivervi con i figli, ma è altresì vero che l’assegnazione alla madre di una casa che sia parzialmente, o ancor peggio integralmente, di proprietà del marito, costituisce un vantaggio economico per la stessa che il Giudice dovrà considerare.

Per stabilire se alla moglie spetti un contributo al proprio mantenimento da parte del marito, dunque, il Giudice dovrà considerare i redditi e i patrimoni di entrambi i coniugi (una moglie potrebbe infatti non lavorare ma avere un patrimonio immobiliare che le consente di vivere di rendita), l’ulteriore vantaggio economico dell’assegnazione della casa coniugale se di proprietà del marito, eventuali debiti di entrambi (mutui e finanziamenti), il costo della casa coniugale e il tenore di vita goduto durante il matrimonio per determinare se alla moglie spetti o meno un contributo al proprio mantenimento da parte del marito.

Non è quindi sufficiente che la moglie lavori per scongiurare al marito l’obbligo di versarle un assegno di mantenimento se il reddito che la stessa percepisce è di gran lunga inferiore a quello del marito o non le consente di mantenersi dignitosamente.

Certamente, qualora la moglie non abbia un reddito proprio, come avvocato divorzista mi premurerei di avvisare il marito che sarà verosimilmente tenuto a contribuire al suo mantenimento, a meno che la perdita del lavoro da parte della moglie non sia stata volontaria ed ingiustificata.

Devo anche chiarire che ho espressamente riferito l’assegno di mantenimento solo alla moglie perchè nella mia lunga carriera non mi è mai capitato che fosse un marito a chiedere l’assegno di mantenimento per sé alla moglie, né ho mai visto sentenze che condannassero la moglie a mantenere il marito.

I tempi stanno cambiando e così come ho assistito padri che hanno ottenuto il collocamento prevalente dei figli minori – una volta molto più raro – non escludo che presto sarà più frequente leggere sentenze che attribuiscano un assegno di mantenimento a favore del marito.

Dovrò pagare qualcosa a mia moglie per il mantenimento dei figli?

Il contributo al mantenimento dei figli è spesso dovuto dal genitore che non ha il collocamento prevalente.

A differenza di quanto ho riferito per l’assegno di mantenimento a carico della moglie in favore del marito, come avvocato divorzista ho assistito padri che, avendo avuto il collocamento prevalente dei propri figli, oltre ad ottenere l’assegnazione della casa coniugale, hanno altresì ricevuto un contributo al mantenimento per i figli collocati in via prevalente presso di loro.

Il contributo al mantenimento dei figli, oltre ad essere parametrato ai redditi dei genitori, è altresì rapportato – o così dovrebbe essere – anche agli obblighi di accudimento assunti dai genitori e ai tempi di permanenza dei figli presso l’uno e l’altro genitore.

A fronte di redditi equivalenti e di un collocamento paritario, pertanto, entrambi i genitori dovranno provvedere direttamente al mantenimento dei figli, senza che vi sia alcun passaggio di denaro dall’uno all’altro.

Ogni avvocato divorzista vi potrà confermare, invece, che a fronte di uno squilibrio reddituale rilevante, anche a fronte di un collocamento paritario, sarà verosimilmente dovuto un assegno di mantenimento al coniuge economicamente più debole, al fine di perequare la situazione finanziaria dei due genitori.

Se poi, oltre allo squilibrio reddituale, il genitore meno abbiente sarà il genitore collocatario dei figli minori, verosimilmente avrà diritto ad un assegno di mantenimento per i figli stessi, al fine di poter provvedere a quanto necessario per la cura e l’accudimento degli stessi.

Cosa sono le spese straordinarie?

Le spese straordinarie sono tutte quelle spese che un genitore deve sostenere per i figli e che non sono ricomprese nel contributo al mantenimento ordinario.

Le spese straordinarie possono essere spese mediche, scolastiche o extrascolastiche, devono essere sempre documentate dal genitore che le sostiene e chiede all’altro di rifondere la propria parte e sono suddivise spesso in spese che richiedono e spese che non richiedono il preventivo accordo.

Anche solo in Lombardia, i Protocolli relativi alle spese straordinarie, sottoscritti tra gli avvocati divorzisti, i consigli degli ordini territoriali degli avvocati e i Tribunali sono diversi da distretto a distretto.

Solo per fare un esempio, il Protocollo del Tribunale di Bergamo e il Protocollo del Tribunale di Lecco prevedono la mensa scolastica tra le spese straordinarie, mentre il Protocollo del Tribunale di Brescia, così come il Protocollo del Tribunale di Monza e il Protocollo del Tribunale di Milano, in ossequio alle conformi decisioni in merito della Corte di Cassazione, includono la mensa nel contributo ordinario al mantenimento.

Quanto tempo deve passare tra la separazione e divorzio?

Come avvocato divorzista, esperta in diritto di famiglia, mi sono spesso trovata a rispondere a questa domanda, ma anche in questo caso la risposta è diversa a seconda che le parti abbiano optato per una separazione consensuale o per una separazione giudiziale.

I coniugi che si separano consensualmente, infatti, possono divorziare sei mesi dopo, mentre i coniugi che si sono trovati ad affrontare una separazione giudiziale dovranno attendere  almeno un anno prima di poter divorziare.

La riforma Cartabia, tuttavia, ha introdotto la possibilità di depositare con il ricorso per separazione consensuale anche il ricorso per il divorzio congiunto ed in tal caso sarà il Tribunale a fissare direttamente l’udienza (che si potrà svolgere anche per iscritto senza necessità che i coniugi presenzino), in modo da pronunciare il divorzio con una specie di automatismo, decorsi i 6 mesi dalla separazione.

Conclusione

Affrontare una separazione e un divorzio è un processo complesso che richiede assistenza legale qualificata. Parlare con un avvocato divorzista esperto in diritto di famiglia ti aiuterà a chiarire i tuoi diritti e ad affrontare la situazione con maggiore sicurezza.

Se hai bisogno di consulenza personalizzata, contatta lo Studio Legale Tassinari & Sestini per una prima valutazione del tuo caso.

 

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Mantenimento figlio

“Mantenimento figlio” è la prima voce nell’elenco degli argomenti da discutere quando una coppia genitoriale si separa, sia nell’ambito di separazioni dei coniugi, sia in ogni giudizio che coinvolge genitori non sposati che decidono di interrompere la convivenza. E’ evidente che i genitori non smettono di essere tali nel momento in cui smettono di convivere ed entrambi dovranno continuare a contribuire alla crescita, all’educazione, alla cura dei propri figli anche sotto il profilo economico.

Considerato che è un diritto riconosciuto ai figli quello di mantenere un rapporto significativo con entrambi i genitori ed i rispettivi rami parentali, ci si potrebbe chiedere se non sia sufficiente che ciascun genitore continui ad occuparsi del proprio figlio quando lo tiene con sé, senza la necessità di prevedere passaggi di denaro tra i genitori.

Vediamo di dare una risposta a questa domanda, di comprendere la funzione dell’assegno di mantenimento e di analizzare tutte le questioni che le coppie separate si trovano ad affrontare in ordine al mantenimento del figlio.

1. Il mantenimento diretto

Quando entrambi i genitori si occupano direttamente del figlio nelle tempistiche tra loro concordate o decise da un Giudice, senza che sia previsto un contributo economico in favore di nessuno dei due per il mantenimento del figlio, si dice che i genitori sono in regime di “mantenimento diretto”.

In tal caso, entrambi spenderanno direttamente quanto necessario per nutrire i figli, dar loro un’abitazione pagandone i relativi costi, e acquistare per loro il vestiario necessario.

Il mantenimento diretto, tuttavia, può essere attuato nei casi di seguito elencati:

1) i genitori hanno redditi pressoché equivalenti e il figlio soggiorna in modo paritario con l’uno e con l’altro dei propri genitori (collocamento paritario o paritetico).

Per esempio: la madre guadagna 1600 € netti al mese per 14 mensilità (1600×14:12 mesi = 1866,66 €), il padre guadagna circa 1750 € netti al mese per 13 mensilità (1750×13:12= 1895,83 €), i figli trascorrono con i genitori settimane alternate e la casa coniugale e la casa coniugale era in locazione per cui entrambi pagano un canone per la propria abitazione.

2) il genitore che ha il collocamento prevalente ha un reddito sensibilmente superiore rispetto a quello del genitore non collocatario e non si è ritenuto opportuno stabilire un contributo economico da parte di questi, che contribuirà, proporzionalmente alle proprie possibilità, occupandosi del figlio nel periodo in cui lo terrà con sé.

Per esempio: il figlio è collocato prevalentemente presso il padre (circostanza che capita ormai più frequentemente che in passato) che guadagna circa 4000 € al mese per 13 mensilità (4000×13:12= 4333,33 €), mentre la madre, che tiene con sé il figlio 4  o 5 giorni al mese in meno rispetto al padre, guadagna 1600 € al mese per 14 mensilità ed entrambi hanno un canone di locazione da pagare.

2. Qual è la funzione dell’assegno di mantenimento del figlio e quando è dovuto?

Il mantenimento del figlio richiederà, invece, un contributo economico a favore del genitore economicamente più debole.

L’assegno di mantenimento figlio ha la funzione di consentirgli di mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante la convivenza dei genitori.

L’assegno di mantenimento, infatti, ha la funzione di consentire proprio al figlio di godere delle stesse possibilità sia quando si trova a vivere con la mamma, sia quando vive con il papà.

Facciamo un esempio: la mamma ha il collocamento prevalente del figlio minore, guadagna circa 1600 € al mese per 14 mensilità (=1866,66 € su 12 mesi) ed ha ottenuto l’assegnazione della casa coniugale di proprietà esclusiva del marito. La casa ha un valore locatizio di 800 € al mese ed è quindi come se la Signora ricevesse dal marito 800 € al mese per un canone di locazione, maturando un attivo mensile di € 2666,66.

Il marito guadagna circa 4000 € al mese per 13 mensilità (= 4333,33 € su 12 mesi) e, oltre a dover continuare ad onorare il un mutuo residuo con una rata di 400 € al mese, paga un canone di locazione di 800 € al mese per l’abitazione in cui si è trasferito e gli residueranno mensilmente 3133,33 € (= € 4333,33-800-400).

In tal caso, verosimilmente il padre in questione potrà essere tenuto a pagare un contributo per il mantenimento del figlio di 300/400 € che consentiranno alla madre di poter far fronte alle esigenze principali del minore senza dover limitare il suo tenore di vita.

3. Quali costi copre l’assegno di mantenimento figlio e cosa sono le spese straordinarie?

L’assegno di mantenimento contribuisce a coprire i costi ordinari del figlio, nei quali sono compresi il vitto (la spesa alimentare), l’alloggio (la quota parte delle utenze domestiche, spese condominiali, canone di locazione o mutuo, tari, etc.), il vestiario, i farmaci da banco e le piccole spese quotidiane.

Secondo le linee guida del CNF (Consiglio Nazionale Forense), il contributo al mantenimento dovrebbe ricomprendere anche buona parte dei costi prevedibili che un genitore è tenuto a sostenere per il figlio.

Tuttavia, in modo del tutto difforme, molti Protocolli sulle spese straordinarie previsti dai singoli Tribunali comprendono buona parte di tali costi tra le spese straordinarie da ripartirsi normalmente nella misura convenuta, normalmente al 50%.

4. Mantenimento figlio maggiorenne

I padri separati tenuti al mantenimento dei propri figli mi hanno spesso chiesto se il loro obbligo cessasse con il raggiungimento della maggiore età.

La risposta a questa domanda è no. Il raggiungimento della maggiore età non basta per esonerare i genitori dall’obbligo di mantenimento, ma è necessario che il figlio maggiorenne sia anche economicamente indipendente.

“Ma quindi devo mantenere mio figlio a vita?” mi sono sentita chiedere spesso. Anche a questa domanda posso finalmente affermare che la risposta è no.

Solo recentemente, infatti, la Corte di Cassazione ha aggiustato il proprio orientamento rendendo più stringenti i presupposti alla base del diritto del figlio maggiorenne al mantenimento, sino ad arrivare ad affermare che, se per il figlio appena maggiorenne l’iscrizione all’Università o la prosecuzione del corso di studi sono sufficienti a dimostrare il diritto ad essere mantenuto dai genitori, il figlio “adulto” che abbia ormai ultimato il proprio percorso scolastico dovrà dimostrare in modo rigoroso di aver vanamente cercato “un lavoro contemperando, fra di loro, le sue aspirazioni astratte con il concreto mercato del lavoro, non essendo giustificabile nel “figlio adulto” l’attesa ad ogni costo di un’occupazione necessariamente equivalente a quella desiderata”.

Non basterà dunque più al figlio maggiorenne sostenere di non aver trovato il lavoro che desidera per poter continuare a percepire l’assegno di mantenimento a carico del genitore obbligato, ma dovrà dimostrare di non aver reperito un’attività per circostanze esterne insuperabili.

Ciò significa che, ove l’assegno di mantenimento sia stato deciso quando il figlio era minorenne o comunque studente, il padre obbligato a versarlo alla ex-moglie, una volta che il ragazzo abbia ultimato il percorso di studi, trascorso il lasso di tempo mediamente necessario per trovare un lavoro, di fronte all’inerzia del figlio, potrà rivolgersi al Tribunale per ottenere la revoca del contributo, a prescindere dal fatto che il figlio abiti ancora in casa con la madre.

5. Modifica dell’assegno di mantenimento figlio

L’assegno di mantenimento figlio, tuttavia, può essere rivisto anche quando il figlio non ha ancora raggiunto l’indipendenza economica.

La modifica potrebbe essere anche volta ad aumentare l’assegno di mantenimento figlio per adeguarlo alle maggiori esigenze connesse alla crescita del figlio stesso, da bambino ad adolescente.

L’assegno di mantenimento figlio potrà anche essere in diminuzione, qualora le condizioni economiche del genitore obbligato al pagamento dovessero sensibilmente peggiorare, rendendo insostenibile l’impegno economico stabilito sulla base di altri presupposti reddituali e/o patrimoniali.

Tali condizioni si sono tristemente verificate per molti padri durante la pandemia del 2020 che comportò la chiusura di molte attività e mise in difficoltà molte persone in diversi settori lavorativi.

6. Conseguenze del mancato pagamento dell’assegno di mantenimento figlio

Tanti genitori in difficoltà pensano di risolvere il problema semplicemente smettendo di corrispondere l’assegno di mantenimento alla madre dei propri figli, anche senza aver ottenuto il suo assenso.

Smettere di pagare l’assegno di mantenimento per il figlio, tuttavia, è irresponsabile sia perchè rischia di mettere in difficoltà il figlio stesso, sia per le conseguenze penali ed economiche che può comportare a danno del genitore che si sottrae al pagamento.

Il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento costituisce reato ai sensi degli articoli 570 bis del codice penale, che punisce “il coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto“.

A fronte del mancato pagamento dell’assegno di mantenimento figlio, inoltre, il genitore in favore del quale è stabilito il contributo può ottenerne il pagamento da parte del datore di lavoro del genitore obbligato o attivare altre procedure per pignorare crediti e beni del genitore obbligato.

In caso di difficoltà a corrispondere l’assegno di mantenimento figlio o qualora non lo si ritenga più dovuto, dunque, è opportuno rivolgersi ad un avvocato divorzista esperto in diritto di famiglia per ottenerne la revisione o la revoca da parte del Tribunale competente.

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Separazione e divorzio (o la crisi familiare in caso di genitori non sposati) per un uomo, marito e padre, rappresentano spesso momenti ancor più complicati che per una donna, specialmente quando la coppia ha dei figli e quando le pretese economiche della moglie o compagna rispecchiano il suo risentimento. Spesso i padri temono di perdere il legame con i propri figli e di trovarsi in

difficoltà a causa di richieste economiche ingiustificate. Ma quali sono i diritti di un marito e padre in caso di separazione e divorzio o di cessazione della convivenza? In questo articolo, esploriamo i principali aspetti legali e le strategie migliori per tutelarsi.

Separazione e divorzio, crisi famigliare. Quali i diritti dei padri?

Separazione e divorzio. Quali i diritti dei padri

Separazione e divorzio. I diritti dei padri.

L’affidamento dei figli e il collocamento prevalente o paritario: quali sono i diritti dei padri?

Nel corso della mia ormai significativa carriera, ho spesso assistito padri preoccupati di “perdere” i propri figli, che giungevano nel mio studio rassegnati perchè convinti che “qualunque sia il rapporto con i genitori, i Tribunali danno sempre i figli  alle madri”. Ma è proprio vero?

Sfatiamo un mito. Il timore di “perdere” i propri figli è infondato. Nessuno dei due genitori con la separazione dovrebbe “perdere” i propri figli, considerato che la legge tutela i diritti dei figli e dei padri con il principio di bigenitorialità, secondo il quale i figli hanno il diritto di mantenere un rapporto significativo con entrambi i genitori e i rispettivi rami parentali, anche dopo la fine della convivenza.

Dobbiamo, quindi, fare chiarezza. Che differenza c’è tra affidamento e collocamento dei figli minori?

Il concetto di “affidamento” è strettamente connesso alla responsabilità genitoriale, mentre il concetto di “collocamento”  serve a determinare la residenza del figlio.

L’affidamento condiviso è stato introdotto con la riforma del diritto di famiglia del 2006 ed è diventato la normalità e l’affidamento esclusivo è ormai previsto solo in casi eccezionali.

L’affidamento condiviso permette a entrambi i genitori di esercitare la propria responsabilità genitoriale nei confronti dei figli, prendendo di comune accordo le decisioni più importanti per la loro vita, mentre in via autonoma e disgiunta ciascun genitore assumerà le decisioni di ordinaria amministrazione legate alla presenza dei figli minori presso di sé.

Se un genitore ha il collocamento prevalente dei figli minori, li avrà con sé per la maggior parte del tempo. Quando invece i genitori si divideranno in modo equivalente il tempo da trascorrere con i figli minori, si dirà che hanno adottato un regime di collocamento paritario (o paritetico). Anche in caso di collocamento prevalente presso uno dei due genitori, tuttavia, l’altro genitore avrà, comunque, il diritto di tenere con sé i propri figli in un modo regolamentato, e quindi non li “perderà”. I Tribunali, peraltro, tendono ormai a favorire ampie frequentazioni dei figli con entrambi i genitori.

L’alienazione parentale, che in psicologia taluno ha definito come una sindrome di natura psicologica del genitore prevalente (solitamente la madre) volta ad allontanare il genitore non collocatario, pur spogliata di ogni connotazione medico-scientifica, può essere citata per identificare il comportamento del genitore collocatario volto ad ostacolare o impedire il rapporto  dell’altro genitore con i figli minori.

Il genitore al quale viene impedito di frequentare i propri figli, dovrà rivolgersi al Tribunale per ottenere la tutela del proprio ruolo genitoriale.

Il mantenimento dei figli è sempre a carico solo del padre?

No! Entrambi i genitori devono contribuire al mantenimento dei propri figli in proporzione alle rispettive disponibilità economiche. Il genitore che non ha il collocamento prevalente dei figli, tuttavia, può essere tenuto a corrispondere al genitore collocatario un assegno di mantenimento per pareggiare i conti delle spese che il genitore collocatario, vivendo i figli prevalentemente con lui, sosterrà direttamente.

Anche in caso di collocamento paritario può essere previsto un contributo in denaro al mantenimento dei figli quando vi sia una sproporzione rilevante tra le possibilità economiche dei due genitori.

Al contrario di quanto si creda, tuttavia, non è sempre il padre a dover versare alla madre dei suoi figli un assegno di mantenimento, poiché capita ormai sempre più spesso che sia la madre a guadagnare di più.

L’assegno di mantenimento comprende il vitto, l’alloggio (inteso come quota parte delle spese domestiche), il vestiario e i normali farmaci da banco necessari per i figli ed è calcolato in base al reddito dei genitori, ai bisogni del figlio (rapportati al tenore di vita cui i genitori lo hanno abituato durante la convivenza) e ai tempi che il minore trascorrerà con ciascun genitore dopo la cessazione della convivenza.

Le spese straordinarie costituiscono un ulteriore costo rispetto all’assegno di mantenimento e comprendono spese mediche, scolastiche, sportive e ricreative. Tali spese sono ormai dettagliatamente indicate in un apposito Protocollo adottato dal Tribunale.  La ripartizione delle spese straordinarie di norma riparti in ragione del 50% ciascuno, ma, nel caso vi sia un divario significativo tra i redditi dei due genitori, può essere prevista in proporzione alle disponibilità economiche dei genitori.

Chi ha diritto di restare nella casa familiare dopo la separazione?

La casa familiare può essere assegnata al genitore che mantiene il collocamento prevalente dei figli minori, indipendentemente dalla proprietà della stessa.

L’assegnazione della casa familiare al genitore che terrà con sé i figli, sebbene prevista nell’esclusivo interesse proprio dei figli minori, ha anche un rilevante risvolto di natura economica che spesso rischia di prevalere sulle decisioni che dovrebbero essere assunte solo considerando quale sia la soluzione migliore per i bambini.

In presenza di figli minori, infatti, la casa viene assegnata al genitore che avrà il collocamento prevalente dei figli, indipendentemente da chi ne sia il proprietario. In caso di collocamento paritario, invece, non sussistendo il presupposto giuridico per l’assegnazione della casa, il Giudice della famiglia non può assumere alcuna decisione in merito.

In assenza di figli minori, invece, la casa resta nella disponibilità del coniuge che ne ha la proprietà.

Il diritto all’assegnazione della casa familiare cessa quando anche l’ultimo figlio della coppia è divenuto economicamente indipendente.

Assegno di mantenimento per il coniuge e assegno divorzile sono la stessa cosa?

Innanzitutto, va sottolineato che l’assegno di mantenimento personale non può essere previsto per il caso in cui i genitori non siano sposati.

L’assegno di mantenimento viene assegnato in occasione della separazione dei coniugi, in favore del coniuge che non abbia un reddito sufficiente per garantirsi il tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale.

Nella mia carriera di avvocato divorzista non ho mai visto nessun Tribunale attribuire un contributo al mantenimento personale in favore di un marito e ancora oggi sono le mogli a richiedere un assegno di mantenimento in occasione della separazione o un assegno divorzile in occasione del divorzio.

L’assegno di mantenimento dovuto al coniuge in sede di separazione si distingue dall’assegno divorzile, che ha presupposti diversi, sui quali la Corte di Cassazione ha recentemente mutato il proprio quarantennale orientamento, nell’ottica di privilegiare l’indipendenza economica dei coniugi ed evitare che l’assegno divorzile possa diventare in una pensione vitalizia.

Anche l’assegno divorzile può essere concesso a favore dell’ex-coniuge che non abbia adeguati mezzi di sostentamento, ma ha anche una funzione perequativa e compensativa, volta a ricompensare il coniuge che ne fa richiesta per il contributo dato durante il matrimonio all’altro coniuge per consentirgli di fare carriera e/o costituirsi un patrimonio.

Assegno di mantenimento e assegno divorzile possono essere ridotti o revocati se il coniuge ricevente migliora la propria condizione economica, magati ottenendo un lavoro che prima non aveva, o convive stabilmente con un altro partner o si risposa.

Come gestire l’inizio della crisi famigliare per tutelare i diritti dei padri e dei figli?

Nell’ambito di separazione e divorzio, mi è capitato spesso di assistere mariti o padri che, per distendere gli animi o di fronte alla promessa di una riconciliazione, hanno lasciato prematuramente la casa coniugale o famigliare, nonostante fossero loro i genitori di riferimento per i figli, lasciando in casa le loro mogli o compagne.

Il padre che lascia la casa familiare, tuttavia, rischia di non potervi più rientrare, a meno che non riesca a dimostrare di essere stato vittima di violenze o maltrattamenti o di essere stato, per altre ragioni, costretto a lasciarla.

Se poi il padre lascia la casa familiare senza portare con sé i figli, rischia di non riuscire più ad ottenerne il collocamento prevalente, anche quando ne avrebbe avuto diritto e a dover sottostare alle regole imposte dalla moglie o compagna per poterli vedere, prima di ottenere un provvedimento del Tribunale.

D’altra parte, solo in caso di gravi motivi, quali per esempio la necessità di proteggere i figli da violenza o maltrattamenti, un genitore può essere giustificato a lasciare la casa coniugale portando via con sé i  figli senza il consenso espresso dell’altro genitore. In tal caso, sarà importante sporgere le doverose denunce e attivare quanto prima l’autorità giudiziaria.

Considerato che la violenza domestica non ha sesso e che le donne che usano violenza (sia fisica che psicologica, sia sui figli che sui mariti o compagni), sono più di quanto la gente possa pensare, anche il grido di aiuto di un uomo dovrà essere ascoltato.

Il padre che si trova a dover affrontare la crisi della coppia, pertanto, farà bene a rivolgersi tempestivamente ad un avvocato divorzista, esperto in diritto minorile e di famiglia per farsi consigliare sui passi da compiere per tutelare nel modo migliore i figli minori e la propria posizione, al fine di evitare di compromettere la futura strategia difensiva.

6. Come può un padre difendersi da false accuse?

Purtroppo, anche a causa della pur giusta campagna mediatica contro la violenza di genere e i maltrattamenti in famiglia, capita sempre più spesso che donne senza scrupoli muovano false accuse di violenza domestica, come strategia per ottenere vantaggi nella separazione.

  • In tal caso il marito o il compagno potrà difendersi 
    • Raccogliendo prove (messaggi, e-mail, testimonianze, registrazioni)
    • Evitare reazioni impulsive e qualunque occasione di scontro
    • Rivolgersi subito ad un avvocato per stabilire come gestire la separazione ed evitare di protrarre ed esasperare il periodo di crisi tra le mura domestiche

Conclusione

Separazione e divorzio, così come ogni crisi familiare, costituiscono di per sé un momento difficile per tutti i soggetti coinvolti, soprattutto per i bambini e per i padri che rischiano di veder calpestato il proprio ruolo familiare o di subire ingiustificate richieste economiche.

Per questa ragione e con l’auspicio di poter favorire sempre in tal modo anche i figli minori, l’Avv. Elena Angela Sestini si adopera per tutelare i diritti dei padri ed aiutarli a gestire nel modo migliore la crisi familiare, separazione e divorzio.

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affidamento dei figli al papàL’affidamento dei figli al papà non è più un miraggio.

In dieci anni anche i tribunali hanno fatto passi da gigante nella direzione di una valutazione paritaria dei ruoli genitoriali.

L’affidamento dei figli al papà è un diritto dei bambini stessi, quando ve ne sono i presupposti.

Quando, per esempio, è il papà ad essere il genitore che costituisce il loro riferimento nella vita quotidiana.

Quale dei due genitori si è sempre organizzato per crescere, educare ed accudire i figli, magari sacrificando la carriera ed il proprio tempo libero?

Se la risposta è la mamma, come ancora oggi accade nella maggioranza dei casi, sarà la mamma il genitore di riferimento.

Se però la risposta è il papà, sebbene sia certamente un caso meno frequente, ebbene sarà proprio il papà, il genitore di riferimento dei bambini.

Spesso mi trovo ad assistere padri che, nell’ambito di una separazione, possono indiscutibilmente vantare di essere il genitore di riferimento per i figli.

Eppure, anche questi padri faticano a credere di poter vedere riconosciuto da un Tribunale il proprio diritto a continuare a vivere con i figli.

Spesso tali papà sono terrorizzati all’idea di dover lasciare i bambini ad una madre che non è mai stata disposta a fare altrettanto.

E’ infatti ancora fortemente radicata nella nostra cultura la convinzione che sia la mamma a dover crescere i bambini.

Si crede quindi ancora che il padre possa avere qualche speranza di tenere con sé i figli, nell’ambito della separazione, solo se la madre è palesemente inadeguata.

In realtà, ormai da un decennio, il bambino ha diritto alla bi-genitorialità.

E’ quindi un diritto del bambino mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, anche dopo la separazione.

Questo diritto si traduce, in Tribunale,in primis, nell’affidamento condiviso, che costituisce ormai il tipo di affidamento privilegiato.

In secondo luogo, il Giudice dovrà valutare, nell’interesse esclusivo dei figli, con quale genitore i bambini debbano continuare a vivere.

Nella valutazione del Giudice, la madre non parte più avvantaggiata per il solo fatto di essere la madre.

Il Giudice, infatti, sarà tenuto a decidere per l’affidamento dei figli al papà, quando ve ne siano i presupposti.

La decisione del Giudice dovrà quindi fondarsi sulla necessità di dare ai figli minorenni la maggiore stabilità e serenità possibile.

Stabilità e serenità che sono garantite, verosimilmente, dal genitore che è sempre stato il loro prevalente punto di riferimento.

Il Giudice valuterà altresì che il genitore che vivrà con i bambini garantisca all’altro di mantenere rapporti significativi con loro.

Se il papà risulterà essere il genitore di riferimento dei bambini e darà altrettante garanzie di poterlo continuare ad essere, consentendo anche alla madre di poter mantenere un rapporto significativo con i figli, il Tribunale non potrà che decidere per l’affidamento dei figli al papà, a prescindere dall’idoneità genitoriale della madre.

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bigenitorialitàNonostante il principio della bigenitorialità sia stato introdotto in Italia ormai da un decennio, con la legge 54/2006 sull’affidamento condiviso, di recente si è parlato ancora di “maternal preference”, ossia di preferenza della madre nelle decisioni sull’affidamento dei minori.

Ma in cosa consiste il diritto dei figli alla bigenitoriliatà?

La bigenitorilità è il diritto  “di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”, come espressamente previsto dalla legge.

Come si attua, quindi, in concreto il diritto alla bigenitorialità quando i genitori (che fossero o meno sposati) decidono di interrompere la convivenza?

Come può garantire ai figli minori il diritto alla bigenitorialità il Giudice che deve decidere sul loro affidamento?

Anche la risposta a questa domanda si trova nella legge, che precisa che proprio per realizzare la finalità della bigenitorialità, “il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”.

Considerato che spesso mi trovo ad assistere padri separati, devo riconoscere che i Giudici, anche nei procedimenti più difficili e conflittuali, tendono ad assumere decisioni volte a tutelare effettivamente i minori, valutando, caso per caso, quale tipo di affidamento e di collocamento garantisca maggiormente non solo il diritto dei figli alla bigenitorialità, ma anche il loro diritto ad una crescita equilibrata e serena.

Del resto la legge prevede espressamente che anche dopo la separazione, “La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente”.

In un contesto che inneggia alla “bigenitorialità”, in cui i genitori sembrano finalmente partire sullo stesso piano anche davanti al Giudice che deve decidere sull’affidamento ed il collocamento dei figli, stride la sentenza n. 18087 del 14 settembre 2016 pronunciata dalla Corte di Cassazione, che, pur ammettendone la “teorica valenza scientifica” ha ritenuto “plausibilmente valorizzato” dalla Corte d’Appello il datato ed anacronistico criterio della cd. “maternal preference”, cioè il criterio che, a parità di capacità genitoriale dei due genitori, tende a preferire la madre nella decisione sul collocamento dei minori.

Tale decisione che, per come formulata, ha destato stupore e giustificato aspre critiche, sembra tuttavia già superata dall’ultima decisione dell’autorevole Nona Sezione del Tribunale di Milano, del 19 ottobre 2016, la quale ha precisato con parole inequivocabili che “il principio di piena bigenitorialità e quello di parità genitoriale hanno condotto all’abbandono del criterio della “maternal preference” a mezzo di «gender neutral child custody laws», ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore, il genitore di prevalente collocamento non potendo essere il solo genere a determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale; normative del genere sono univocamente anche quelle da ultimo introdotte in Italia dal Legislatore (in particolare, la legge 54 del 2006; ma anche la legge 219 del 2012 e il dlgs 154 del 2013)”.

I padri possono stare tranquilli: il diritto alla bigenitorialità non è solo previsto dalla legge, ma anche sempre più attuato dai Giudici italiani nelle proprie sentenze, che prescindono dal ruolo genitoriale,  optando per il collocamento presso il genitore che meglio garantisca una crescita serena ed equilibrata dei bambini.