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Il comportamento tenuto dal lavoratore nella propria vita privata, nel caso concreto possesso di sostanze stupefacenti, può giustificare un licenziamento da parte del datore di lavoro?

licenziamentoÈ il caso di un lavoratore, operaio addetto alla manutenzione di impianti elettrici di un’azienda, che è stato arrestato per detenzione di sostanze stupefacenti (500 grammi di hashish) .

Il datore di lavoro, venuto a conoscenza del fatto, lo ha licenziato in tronco.

Il lavoratore ritenendo ingiusto il licenziamento ha avviato un giudizio, ammettendo di aver patteggiato la pena nell’ambito del processo penale nel frattempo instaurato, ma lamentando che i fatti contestati erano estranei al rapporto di lavoro, riguardando la sua sfera personale e pertanto non avrebbero potuto incidere sul rapporto di fiducia con il datore di lavoro.

Il caso è arrivato fino alla Corte di Cassazione che con una recente sentenza ha dato ragione al datore di lavoro.

In particolare, i Giudici hanno ritenuto che la detenzione, anche al di fuori del lavoro, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, considerato che il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione lavorativa ma anche a non porre in essere fuori dall’ambito lavorativo comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro e comprometterne il rapporto di fiducia.

Attenzione, quindi, anche un comportamento tenuto fuori dal lavoro ed estraneo alla prestazione lavorativa può essere di gravità tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e giustificare il licenziamento.

Nel caso concreto, i Giudici hanno dato rilevanza al fatto che il lavoratore svolgeva la sua attività all’interno di uno stabilimento molto grande e frequentato da molti lavoratori e quindi che vi fosse il pericolo di diffusione nell’ambiente di lavoro delle sostanze stupefacenti detenute.

Inoltre, hanno rilevato la mancanza di trasparenza e sincerità del lavoratore nel rispondere alle ragioni del possesso della droga, in quanto, in un primo momento, il lavoratore aveva riferito di essere stato un mero trasportatore per conto di terzi di un plico di cui non conosceva il contenuto, circostanza smentita successivamente in sede del patteggiamento penale dove il lavoratore aveva invece ammesso l’addebito.

I Giudici hanno quindi ritenuto che la condotta del lavoratore sia stata tale da ledere il rapporto di fiducia e giustificare il timore del datore di lavoro di un comportamento atto ad incidere negativamente anche sull’ambiente di lavoro ed hanno quindi ritenuto legittimo il licenziamento, dando ragione al datore di lavoro (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-03-2017, n. 8132).

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obbligo-di-repechageIl caso riguarda un lavoratore che, in aggiunta alle proprie mansioni, ha svolto per diversi anni mansioni rientranti in un livello superiore rispetto a quello riconosciutogli dal datore di lavoro.

Rivolta ripetutamente al datore di lavoro la richiesta di riconoscimento della qualifica superiore, il lavoratore si è visto costantemente negare tale riconoscimento.

Dopo circa tre anni senza ottenere la qualifica superiore, il lavoratore decideva di opporre al datore di lavoro il rifiuto di svolgere quelle mansioni che rientravano nella qualifica superiore, continuando a svolgere soltanto le mansioni che rientravano nel proprio livello di inquadramento.

Il datore di lavoro, ritenendo di aver esercitato nel modo corretto il proprio potere di modifica delle mansioni assegnate e che il rifiuto opposto dal lavoratore costituisse insubordinazione, ha reagito comunicando il licenziamento disciplinare.

Il lavoratore ha impugnato il licenziamento reputandolo ingiusto ed ha avviato un contenzioso arrivato fino alla Corte di Cassazione.

Esaminate le prove, i Giudici hanno anzitutto accertato che le mansioni svolte corrispondevano effettivamente alla qualifica superiore richiesta dal lavoratore.

Sono poi stati confrontati entrambi i comportamenti: da un lato, il rifiuto del lavoratore di svolgere le sole mansioni rientranti nella qualifica superiore, e dall’altro lato, il rifiuto del datore di lavoro di riconoscere la qualifica superiore a cui corrispondevano le mansioni svolte.

È stata data quindi rilevanza al fatto che il lavoratore abbia limitato il proprio rifiuto alle sole mansioni superiori, continuando a svolgere le altre, sicché il rifiuto (parziale) è stato ritenuto proporzionato all’inadempimento a propria volta commesso dal datore di lavoro che non ha riconosciuto la superiore qualifica ripetutamente richiesta e dovuta.

Il rifiuto parziale del lavoratore è stato ritenuto proporzionato all’inadempimento del datore di lavoro

I Giudici hanno quindi dato ragione al lavoratore, ritenendo che il comportamento dello stesso non fosse tale da giustificare la sanzione del licenziamento, che è stato quindi dichiarato illegittimo (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-10-2016, n. 20222).

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tentativo-di-conciliazione-obbligatorioChe cosa è e quando si applica il tentativo di conciliazione obbligatorio previsto per i casi di licenziamento per motivo oggettivo?

Il tentativo di conciliazione obbligatorio è una procedura che, ricorrendo alcuni presupposti, deve essere obbligatoriamente effettuata prima di procedere ad un licenziamento per motivo oggettivo (ossia, quello determinato da ragioni che non dipendono dal comportamento del lavoratore come ad esempio quello motivato da riorganizzazione aziendale, soppressione della mansione, sopravvenuta infermità).

Quando le aziende sono tenute al rispetto di questa procedura? Sono tenute ad avviare il tentativo di conciliazione obbligatorio le aziende con più di 15 dipendenti, salvo nelle seguenti ipotesi:

  • licenziamenti a cui si applicano le norme sulle tutele crescenti;
  • licenziamenti per superamento del periodo di comporto;
  • licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi appalto ai quali siano seguite assunzioni presso altri datori di lavoro in attuazione delle clausole contenute nei CCNL che garantiscano la continuità dell’occupazione;
  • interruzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili per completamento delle attività e chiusura del cantiere.

Come si svolge il tentativo di conciliazione obbligatorio?

In pratica, l’azienda deve inviare una comunicazione all’ITL (Ispettorato Territoriale del Lavoro, in precedenza chiamato DTL Direzione Territoriale del Lavoro) e al lavoratore, dando notizia dell’intenzione di interrompere il rapporto di lavoro con il dipendente.

Nel sito internet dell’ITL, nella sezione modulistica, è scaricabile il modulo prestampato relativo proprio a questa comunicazione. Il modulo contiene dei campi da compilare relativi all’indicazione delle parti, al rapporto di lavoro, alle motivazioni del licenziamento e alle eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore.

Ricevuta la comunicazione, l’ITL provvede a trasmettere nel termine di 7 giorni la convocazione del datore di lavoro e del lavoratore.

All’incontro fissato viene verificata la possibilità di raggiungere un accordo sulla risoluzione del rapporto o l’applicazione di altre soluzioni come eventualmente l’assegnazione ad altre mansioni.

Se l’accordo viene raggiunto, le condizioni concordate vengono scritte in un verbale e in caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro il lavoratore, se ne ha i requisiti, potrà ottenere l’indennità di disoccupazione.

Se invece non si raggiunge alcun accordo, il datore di lavoro è a quel punto libero di comunicare il licenziamento. Parimenti, se l’ITL non provvede a trasmettere la convocazione entro il termine di 7 giorni il datore di lavoro può procedere con la comunicazione del licenziamento.

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Cosa significa e in cosa consiste l’obbligo di repechage?

obbligo-di-repechageIl repechage è un obbligo imposto al datore di lavoro che intende procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In particolare, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ossia un licenziamento determinato da ragioni di carattere produttivo o organizzativo, come ad esempio una riorganizzazione aziendale, è necessario che il datore di lavoro verifichi di non essere in grado di riassorbire il lavoratore che sta per licenziare nella struttura aziendale.

L’obbligo di repechage è quindi la verifica che non sussista la possibilità di ricollocare il lavoratore ad altre mansioni all’interno dell’azienda.

In caso di contenzioso è il datore di lavoro che ha l’onere di provare di aver verificato l’impossibilità del repechage.

Si tratta di un onere che va assolto anche in riferimento a mansioni di lavoro inferiori, se rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e compatibili con l’assetto organizzativo aziendale.

Questo è quanto chiarito in un caso di applicazione del repechage affrontato in una recente sentenza della Corte di Cassazione.

In particolare, l’azienda comunicava ad un proprio dipendente il licenziamento per soppressione del posto di lavoro.

Il lavoratore impugnava il licenziamento, contestando che l’azienda avrebbe avuto la possibilità di reimpiegarlo in altro posto di lavoro con mansioni equivalenti o inferiori.

Veniva, quindi, avviato un contenzioso arrivato fino alla Corte di Cassazione.

I Giudici, decidendo il caso, hanno affermato un principio, oggetto di molti dibattiti in giurisprudenza, ossia che il datore di lavoro è tenuto a prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego in mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento e a fornire la relativa prova in giudizio.

Invero, la Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro che procede ad un licenziamento per motivo oggettivo ha l’onere di dimostrare in giudizio che al momento del licenziamento non solo non vi era alcuna posizione in cui poter ricollocare il lavoratore per lo svolgimento di mansioni equivalenti, ma deve anche dimostrare di aver offerto al lavoratore la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori (seppur rientranti nel suo bagaglio professionale) e di non aver ottenuto il consenso di quest’ultimo.

I Giudici quindi hanno dato ragione al lavoratore, non risultando assolto l’obbligo di repechage con riguardo alla possibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori ed hanno dichiarato illegittimo il licenziamento (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-12-2016, n. 26467).

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Un datore di lavoro licenzia il proprio dipendente per un’infrazione disciplinare per la quale il CCNL prevede una sanzione conservativa (ossia, rimprovero verbale o scritto, multa o sospensione). Il licenziamento è legittimo o no?

sanzioni-disciplinari-ccnlNo, ha detto la Corte di Cassazione in un caso recentemente trattato.

È, infatti, capitato che un’azienda aveva contestato al proprio dipendente un’assenza ingiustificata per tre giorni e la mancata comunicazione della stessa. Alla contestazione disciplinare seguiva il licenziamento per giusta causa.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento, sostenendone l’illegittimità in quanto il comportamento contestato rientrava tra le ipotesi per le quali il CCNL prevedeva una sanzione conservativa. Riteneva, pertanto, ingiusto il provvedimento ed avviava un giudizio.

L’azienda riteneva, invece, di aver adottato un provvedimento legittimo, rilevando che i fatti contestati non erano totalmente coincidenti con le previsioni del contratto collettivo. Infatti, nella lettera di contestazione disciplinare l’azienda imputava al lavoratore non solo l’assenza ingiustificata ma anche la mancata comunicazione della stessa.

In particolare, il CCNL applicato sanzionava con il licenziamento l’ipotesi in cui il dipendente effettui assenze ingiustificate prolungate per oltre 5 giorni consecutivi. Invece, per la mancata comunicazione dell’assenza era prevista una sanzione conservativa.

Interpretando tali previsioni del CCNL, i Giudici, a cui è stato sottoposto il caso, hanno ritenuto che il CCNL, prevedendo il licenziamento per assenze ingiustificate superiori a 5 giorni, abbia ritenuto applicabile una sanzione conservativa per le ipotesi di assenze ingiustificate interiori a 5 giorni, indipendentemente dalla comunicazione dell’assenza, per la quale comunque era applicabile una sanzione conservativa.

Pertanto, essendo nel caso concreto intervenuta un’assenza ingiustificata inferiore a 5 giorni, il datore di lavoro non avrebbe dovuto applicare la sanzione del licenziamento.

Se l’illecito disciplinare rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa in base al CCNL applicato dall’azienda, il licenziamento è illegittimo.

Tale principio trova conferma nella norma prevista dall’art. 18 Statuto dei Lavoratori, riformato dalla c.d. Legge Fornero, che sanziona l’illegittimità del licenziamento nelle ipotesi in cui il fatto posto a base del provvedimento espulsivo rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa in base al contratto collettivo o al codice disciplinare aziendale.

I Giudici hanno, quindi, dato ragione al lavoratore, dichiarando l’illegittimità del licenziamento (Cass. civ. Sez. lavoro , 06/07/2016, n. 13787).

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Parliamo del rapporto tra assenze ingiustificate del lavoratore e licenziamento disciplinare.

assenze ingiustificateLa valutazione della sanzione disciplinare da adottare a fronte delle assenze ingiustificate del lavoratore va effettuata dal datore di lavoro, tra l’altro, tenendo conto delle particolarità del caso concreto e del principio della proporzionalità tra la sanzione del licenziamento e l’infrazione commessa.

Per agevolare la valutazione è opportuno per il datore di lavoro consultare previamente il CCNL applicato al rapporto di lavoro.

Spesso, infatti, i contratti collettivi disciplinano espressamente la materia dal punto di vista disciplinare.

Ad esempio il CCNL Logistica, Trasporto Merci e Spedizione, prevede nella sezione dedicata ai provvedimenti disciplinari che il licenziamento disciplinare possa essere adottato nel caso di assenza ingiustificata del lavoratore per almeno 4 giorni consecutivi salvo i casi di forza maggiore.

Già quindi il CCNL può essere utile per fornire dei parametri per la valutazione della proporzionalità della sanzione disciplinare, salvo il fatto che comunque occorre sempre tenere conto delle particolarità del caso concreto.

Il Giudice, infatti, nonostante il CCNL possa prevedere per una determinata infrazione la sanzione del  licenziamento, non è vincolato a tale previsione e procede comunque ad una valutazione dell’adeguatezza della sanzione nel caso specifico.

Anche una recentissima sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato proprio il tema del licenziamento per assenze ingiustificate.

In particolare, l’azienda contestava alla propria lavoratrice l’assenza ingiustificata dal lavoro. Nel caso concreto, altre assenze ingiustificate dal lavoro erano già state oggetto di due precedenti sanzioni disciplinari conservative e nonostante ciò la lavoratrice si assentava nuovamente dal lavoro senza giustificazione.

Quest’ultimo procedimento disciplinare si concludeva con un licenziamento comunicato dall’azienda alla lavoratrice.

La lavoratrice, ritenendo ingiusto il provvedimento, ha impugnato il licenziamento, portando il caso fino alla Corte di Cassazione.

I Giudici della Suprema Corte hanno anzitutto preso le mosse dalla disciplina del CCNL applicabile al rapporto.

è quindi consigliabile consultare il CCNL che regola il rapporto di lavoro, verificando se prevede disposizioni particolari circa l’assenza del lavoratore e la comunicazione della stessa.

I Giudici, valutando il caso concreto, hanno quindi ritenuto la legittimità del licenziamento, vista la disciplina posta dal CCNL, considerate le precedenti reiterate assenze ingiustificate già sanzionate ed hanno ritenuto sussistente la proporzionalità della sanzione espulsiva, risultando l’atteggiamento non collaborativo tenuto dalla lavoratrice idoneo a pregiudicare l’affidamento del datore di lavoro sull’esatto adempimento delle prestazioni future, facendo venir meno il vincolo di fiducia nel rapporto di lavoro (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 01-02-2017, n. 2630).

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Entro 5 giorni dalla comunicazione della contestazione disciplinare – oppure entro il diverso termine previsto dal CCNL applicato – il lavoratore può presentare le proprie difese rispetto agli addebiti contestati, giustificandosi per iscritto oppure formulando una richiesta di audizione.

audizione del lavoratoreSe riceve una richiesta di audizione, l’azienda deve convocare il lavoratore ad un incontro per sentire oralmente le sue giustificazioni rispetto agli addebiti contestati.

Il lavoratore nel corso dell’audizione può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale a cui aderisce o conferisce il mandato.

La richiesta di audizione durante il procedimento disciplinare comporta quindi un obbligo in capo all’azienda di sentire oralmente il lavoratore. Ciò deve avvenire prima della comunicazione della sanzione disciplinare.

Attenzione: la sanzione disciplinare comunicata senza aver prima sentito il lavoratore, che abbia fatto richiesta di audizione, è illegittima.

Un caso particolare in materia di audizione del lavoratore è stato affrontato in una recente sentenza della Corte di Cassazione.

In particolare, l’azienda comunicava una contestazione disciplinare per delle infrazioni commesse dal lavoratore.

Quest’ultimo formulava tempestivamente una richiesta di audizione.

L’azienda fissava l’incontro per l’audizione, indicando, tuttavia, erroneamente una data anteriore a quella della contestazione. Seguiva poi la sanzione disciplinare del licenziamento del lavoratore.

Il lavoratore impugnava il licenziamento, portando il caso fino alla Corte di Cassazione.

I Giudici hanno chiarito che il datore di lavoro, fissando una data per l’audizione del lavoratore già trascorsa, ha di fatto impedito al lavoratore di presentare le proprie giustificazioni, ciò indipendentemente dal fatto che l’errore nella data fosse riconoscibile dal lavoratore e che quest’ultimo potesse segnalarlo.

È, infatti, onere del datore di lavoro, prima di comunicare la sanzione disciplinare, assicurasi di aver osservato la procedura disciplinare prevista per legge e, quindi, di aver reso possibile l’esercizio del diritto di difesa del lavoratore.

I Giudici quindi hanno dato ragione al lavoratore, dichiarando illegittimo il licenziamento (Cass. civ. Sez. lavoro, 10/07/2015, n. 14437).

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La tempestività della contestazione disciplinare è un requisito necessario per la validità del procedimento disciplinare e quindi della sanzione applicata.

tempestivita-contestazione-disciplinareAnzitutto, la regola generale è:

la contestazione dell’infrazione disciplinare deve avvenire immediatamente e tempestivamente.

Tale regola è finalizzata a garantire la tutela del diritto di difesa del lavoratore. Ciò per evitare che trascorra troppo tempo e il lavoratore non sia nelle condizioni di ricordarsi i fatti e giustificarsi.

Alcuni CCNL prevedono dei termini precisi entro i quali l’azienda è tenuta a comunicare la contestazione disciplinare.

Ad esempio, il CCNL Logistica, Trasporto Merci e Spedizione prevede che la contestazione disciplinare deve essere inviata al lavoratore “tassativamente” entro 20 giorni dalla data in cui l’azienda è venuta a conoscenza del fatto contestato.

Quindi, l’azienda deve anzitutto verificare se il CCNL applicato prevede termini da rispettare per comunicare la contestazione disciplinare.

In tal caso, i termini indicati dal CCNL vanno rispettati.

Se il CCNL nulla dispone, vale la regola generale: l’azienda deve contestare le infrazioni tempestivamente, non appena ne ha conoscenza.

La giurisprudenza è intervenuta in più occasioni su quest’ultimo punto, precisando che il requisito della tempestività della contestazione disciplinare va interpretato in senso relativo, tenendo conto delle particolarità del caso concreto alla luce dei principi di buona fede e correttezza nel rapporto di lavoro, in particolare, quando l’accertamento del comportamento del lavoratore richiede del tempo oppure quando la complessità della struttura aziendale comporta l’esigenza di un maggior tempo per la comunicazione della contestazione.

Un recente caso trattato dalla giurisprudenza conferma tale orientamento.

La questione riguarda un datore di lavoro che ad aprile 2015 ha comunicato al lavoratore una contestazione disciplinare per un fatto accaduto oltre un mese prima. In particolare, in data 23 e 28 febbraio 2015, dopo aver ottenuto due permessi per assistenza a persona invalida (L. 104/92), il lavoratore si era assentato dal lavoro, senza però svolgere alcuna prestazione di assistenza, ma altra attività personale. Ne seguiva il licenziamento del lavoratore.

Il lavoratore impugnava il licenziamento eccependo, tra l’altro, la tardività della contestazione, perché comunicata ad oltre un mese dai fatti.

Il datore di lavoro giustificava il tempo trascorso tra i fatti contestati e la comunicazione della contestazione disciplinare, in ragione del tempo necessario per effettuare gli accertamenti da parte dell’agenzia investigativa che aveva incaricato. Inoltre, essendo in corso controlli anche su altri lavoratori, l’azienda non poteva vanificarli comunicando una contestazione ad un lavoratore in modo anticipato rispetto alla conclusione dei controlli su tutti gli altri.

Il Giudice, valutando il caso concreto, ha ritenuto ragionevole il tempo trascorso in ragione degli accertamenti effettuati, dando ragione all’azienda. (Trib. Genova Sez. lavoro, Sent., 17-05-2016)

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Il datore di lavoro può modificare i fatti oggetto di contestazione disciplinare al momento dell’applicazione della sanzione?

contestazione disciplinareLa questione è stata affrontata in una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. Civ. 22127/2016).

Un lavoratore si assentava dal lavoro comunicando che non sarebbe rientrato a causa di maltrattamenti subiti sul posto di lavoro.

A tale lettera seguiva l’assenza per due giorni.

L’azienda rispondeva con una contestazione disciplinare, in cui contestava l’assenza da considerarsi ingiustificata invitando il lavoratore a riprendere il lavoro.

Nella lettera di giustificazioni il lavoratore ribadiva che sarebbe rientrato al lavoro solo se fossero cessati i maltrattamenti.

Il datore di lavoro comunicava la sanzione del licenziamento “perdurando ad oggi la sua ingiustificata assenza”.

Il lavoratore impugnava il licenziamento, contestando la violazione del principio dell’immutabilità della contestazione. Il lavoratore lamentava che la contestazione riguardava 2 giorni di assenza mentre il licenziamento era riferito anche alle assenze successive.

Il caso riguarda l’esame di un requisito fondamentale per la validità della contestazione disciplinare: l’immutabilità dei fatti della contestazione.

In forza di tale principio i fatti oggetto della sanzione disciplinare non possono essere diversi da quelli della contestazione.

I fatti oggetto della contestazione disciplinare devono coincidere con quelli oggetto della sanzione disciplinare.

Lo scopo di tale requisito è tutelare il diritto di difesa del lavoratore, che va messo nella condizione di difendersi sugli addebiti contestati.

I Giudici hanno individuato l’oggetto della contestazione disciplinare nell’assenza ingiustificata ed hanno valorizzato le particolarità del caso concreto, in cui il lavoratore nelle giustificazioni ha confermato l’assenza, dichiarando persino l’intenzione di volerla proseguire.

I Giudici hanno ritenuto legittimo il licenziamento, in quanto intimato in relazione ad un addebito (l’assenza ingiustificata) rispetto al quale non vi era violazione del principio di immutabilità della contestazione poiché il lavoratore era stato messo in condizione di discolparsi.

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