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Per recidiva si intende la ripetizione da parte del lavoratore della stessa infrazione, che ha dato luogo ad una sanzione disciplinare, nell’arco di 2 anni.

Se il datore di lavoro intende far valere la recidiva è opportuno contestarla espressamente al lavoratore.

In alcuni casi, peraltro, la recidiva non è solo un elemento che aggrava il comportamento del lavoratore, ma è proprio un elemento dell’infrazione disciplinare. In tali ultimi casi la contestazione dell’infrazione deve riguardare, a pena di nullità della sanzione, anche la recidiva.

Ad esempio, in un recente caso affrontato dalla Corte di Cassazione si affronta il tema della recidiva, rispetto ad un licenziamento per assenza ingiustificata.

La lavoratrice contestava la legittimità del licenziamento perché motivato da un unico giorno di assenza ingiustificata e riteneva che tale comportamento non fosse grave al punto tale da giustificare la massima sanzione disciplinare. Rilevava, inoltre, la lavoratrice che non era stata espressamente contestata la recidiva rispetto ad altre assenze ingiustificate, che pertanto non potevano essere considerate.

La Corte di Cassazione ha chiarito che la contestazione disciplinare al lavoratore deve riguardare, a pena di nullità della sanzione, anche la recidiva, quando quest’ultima è un elemento proprio dell’infrazione disciplinare in base a quanto stabilito nel CCNL applicato.

Quindi, per verificare se la recidiva è un elemento costitutivo dell’infrazione disciplinare bisogna consultare il CCNL.

Nel caso in esame, il CCNL applicato al rapporto prevedeva che in caso di assenza ingiustificata fino a 3 giorni nell’anno solare il lavoratore poteva essere sanzionato con la multa, in caso di assenza fino a 4 giorni con la sospensione dal lavoro e, infine, in caso di assenza superiore a 4 giorni o di recidiva oltre la terza volta nell’anno solare con il licenziamento.

In base a quanto indicato nel CCNL, la recidiva rappresentava quindi un elemento costitutivo dell’infrazione disciplinare per giustificare il licenziamento. Per il CCNL, infatti, la recidiva assumeva rilevanza solo oltre la terza volta nell’anno solare.

Nel caso concreto, la mancanza contestata dal datore di lavoro nella lettera di contestazione alla lavoratrice riguardava un solo giorno di assenza ingiustificata. Ciò nonostante, prima di tale assenza ingiustificata la lavoratrice nel mese appena precedente si era assentata senza giustificazione per 13 giorni.

Tuttavia, la recidiva non è stata contestata.

Se la recidiva è un elemento costitutivo dell’infrazione disciplinare va contestata espressamente al lavoratore.

Quindi, nel caso concreto, i Giudici hanno chiarito che non è possibile attribuire rilevanza alla recidiva non espressamente contestata dal datore di lavoro, dando ragione alla lavoratrice  (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 22-11-2016) 25-01-2018, n. 1909).

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Una recente sentenza della Corte di Cassazione è tornata ad affrontare il caso del licenziamento disposto per attività extralavotiva durante la malattia.

attività extralavorativa durante la malattiaIl caso affrontato riguarda un lavoratore con mansioni di guida di camion con obbligo di scarico delle merce.

L’assenza per malattia era dovuta ad un infortunio, in cui il lavoratore aveva riportato una contusione a spalla e polso sinistro.

Il datore di lavoro veniva a conoscenza che il lavoratore aveva svolto attività extralavorativa durante la malattia, presso l’esercizio commerciale del figlio, dove il lavoratore si recava con la propria vettura, si occupava dell’apertura e chiusura del negozio e spostava carichi e vasi con piante.

Ritenendo tale attività contrastante con l’infortunio denunciato, il datore di lavoro licenziava il dipendente.

Quest’ultimo ritenendo ingiusto il provvedimento, lo impugnava, avviando un giudizio arrivato sino alla Corte di Cassazione.

I Giudici hanno ribadito un principio già affermato in precedenti sentenze:

lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il licenziamento se l’attività è tale da far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando una sua fraudolenta simulazione, oppure, se tale attività valutata in relazione alla natura dell’infermità e alle mansioni svolte è tale da pregiudicare il rientro in servizio del lavoratore.

Dalle prove assunte nel processo è risultato che le condotte del lavoratore consistevano nella guida dell’automobile e nel compimento di attività che i Giudici hanno valutato non particolarmente faticose (tenere in mano un sacchetto riempito solo per 1/5, spostamento di piccole piantine e abbassamento della saracinesca dell’esercizio commerciale con dispositivo elettronico).

Valutando il caso concreto, quindi, i Giudici hanno ritenuto che le attività svolte dal lavoratore durante la malattia non fossero indicative di simulazione della stessa, né che ritardassero la guarigione.

 

I Giudici hanno quindi dato ragione al lavoratore, dichiarando l’illegittimità del licenziamento (Cass. Civ. Sez. Lavoro, Sent., (ud. 9.05.2017) 19.09.2017 n. 21667).

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Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta il caso di un licenziamento per abuso di connessione internet aziendale.

Abuso di connessione internetIn particolare, un’azienda assegnava al proprio dipendente un PC per 2 mesi.

L’azienda verificava accessi indebiti alla rete aziendale per finalità personali e lunghi i tempi di collegamento.

Ritenendo tale comportamento una grave infrazione ai doveri del lavoratore, l’azienda avviava un procedimento disciplinare contestando l’abuso di connessione internet per fini personali.

L’azienda concludeva il procedimento disciplinare con la sanzione del licenziamento per abuso di connessione internet.

Il lavoratore impugnava il licenziamento, ritenendo tra l’altro violato il suo diritto alla riservatezza.

I Giudici hanno valorizzato:

  • l’utilizzo della connessione aziendale per fini personali sistematica, in considerazione del numero di connessioni e della durata degli accessi;
  • il fatto che la società si era limitata a verificare l’esistenza degli accessi, i tempi di collegamento e il traffico dati, senza compiere alcuna analisi dei siti visitati o la tipologia dei dati scaricati.

Questi elementi hanno portato i Giudici a ritenere che il dipendente avesse realizzato un abuso di connessione internet aziendale.

Sulla violazione del diritto alla riservatezza lamentata dal dipendente, i Giudici l’hanno esclusa ed hanno ritenuto che i dettagli del traffico internet (data, ora, durata della connessione e importo del traffico) non costituiscono dati personali, non comportando alcuna indicazione di elementi riferibili alla persona dell’utente e di sue scelte politiche, religiose, culturali o sessuali.

I dettagli del traffico internet aziendale verificati non hanno comportato violazione della riservatezza del dipendente

Infine, i Giudici hanno ritenuto che le verifiche effettuate dall’azienda non costituivano controllo a distanza della prestazione lavorativa e pertanto erano fuori dal campo di applicazione dei limiti dell’art. 4 Statuto Lavoratori.

I Giudici hanno quindi dato ragione all’azienda, confermando la legittimità del licenziamento per abuso di connessione internet aziendale (Cass. Civ. Sez. Lavoro, Sent. 15.06.2017 n. 14862).

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Un recente caso affrontato dalla Corte di Cassazione ci consente di tornare sul tema del principio della proporzionalità del licenziamento rispetto all’infrazione disciplinare addebitata al dipendente.

proporzionalità del licenziamentoIl caso affrontato dai Giudici riguarda il licenziamento comunicato dal titolare di una pasticceria al proprio dipendente.

Era accaduto che il titolare aveva pagato al dipendente la retribuzione del mese precedente, consegnandogli un assegno il giorno venerdì ad un orario in cui le banche erano ormai chiuse.

Il dipendente si è infuriato e ne è sorta una lite.

Nel corso della lite, il dipendente si era rivolto al proprio titolare con ingiurie e minacce di scontro fisico. Erano presenti i clienti in sala della pasticceria e i colleghi.

A fronte di tale episodio, il titolare della pasticceria avviava un procedimento disciplinare, ultimato con il licenziamento per giusta causa.

Secondo la pasticceria, infatti, la condotta del dipendente era talmente grave, anche per essere avvenuta alla presenza dei clienti e dei colleghi, da confermare la proporzionalità del licenziamento.

Ritenendo ingiusto il provvedimento, il dipendente avviava un giudizio per accertare l’illegittimità del licenziamento.

Nel corso del giudizio sono risultati provati i fatti contestati al dipendente.

I Giudici hanno, quindi, valutato la proporzionalità del licenziamento.

Per fare ciò hanno dato rilievo alle circostanze del caso concreto, ed in particolare:

  • la reazione scomposta del dipendente, le ingiurie e le minacce di scontro fisico rivolte al titolare;
  • la presenza di clienti e colleghi, con danno all’immagine dell’azienda.
  • il “disvalore ambientale” del comportamento tenuto dal dipendente, idoneo a diventare per i colleghi più giovani un modello diseducativo e un disincentivo all’adempimento degli obblighi di lavoro e al reciproco rispetto.

I Giudici pertanto hanno applicato il principio secondo cui la proporzionalità tra fatto contestato al dipendente e licenziamento non va effettuata in astratto, ma con specifico riferimento a tutte le circostanza del caso concreto.

Il giudizio sulla proporzionalità di una sanzione disciplinare va effettuato con riferimento alle circostanze del caso concreto.

I Giudici hanno quindi dato ragione al datore di lavoro, confermando la proporzionalità del licenziamento rispetto alla gravità dell’infrazione disciplinare contestata (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 15.09.2017, n. 21506).

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Una recente sentenza della Corte di Cassazione relativa al caso di un licenziamento per furto consente di affrontare la questione della proporzionalità tra infrazione disciplinare e licenziamento.

licenziamento per furtoLa regola è che: la sanzione disciplinare deve essere proporzionata alla gravità dell’infrazione disciplinare commessa dal dipendente.

Il caso affrontato dai giudici riguarda il dipendente di un supermercato licenziato per aver rubato dei dolciumi, seppur di modico valore.

In particolare, è capitato che, mentre il dipendente stava uscendo dal supermercato, è scattato l’allarme antitaccheggio.

Nella giacca e nei pantaloni del dipendente sono state trovate confezioni di gomme e caramelle del valore di € 9,80.

Il datore di lavoro ha licenziato in tronco il dipendente, ritenendo che fosse venuto meno il rapporto di fiducia.

Ritenendo ingiusto il provvedimento, il dipendente ha avviato un giudizio per accertare l’illegittimità del licenziamento per furto.

I Giudici hanno considerato:

  • il fatto che trattandosi di un supermercato la merce resta esposta in scaffali e banchi di vendita;
  • le mansioni del dipendente comportano un contatto diretto con la merce. Il dipendente, infatti, prima era addetto alla sicurezza e, al momento del furto, era addetto al rifornimento degli scaffali.
  • il carattere fraudolento del comportamento del lavoratore, ricavato dal fatto che il datore di lavoro all’insaputa dei dipendenti aveva apposto sulla merce in esposizione adesivi idonei a far scattare l’allarme diversi dai tradizionali e visibili dispositivi antitaccheggio.

Questi elementi hanno portato i Giudici a ritenere che la gravità del comportamento del dipendente fosse tale da far venir meno la fiducia nel rapporto di lavoro e porre in dubbio la futura correttezza dell’operato del dipendente, nonostante il valore esiguo della merce sottratta e l’assenza di precedenti disciplinari a carico del lavoratore.

Il valore esiguo dei beni sottratti non costituisce elemento sufficiente per escludere la lesione del vincolo di fiducia che deve sussistere nel rapporto di lavoro.

I Giudici hanno quindi dato ragione al datore di lavoro, confermando la legittimità del licenziamento per furto (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-10-2017, n. 24014).

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Un recentissimo caso affrontato dalla Corte di Cassazione ci consente di affrontare la questione del licenziamento per attività extra-lavorativa in malattia. Si tratta dell’ipotesi in cui il lavoratore ammalato o infortunato svolge attività extra-lavorativa durante l’assenza per malattia.

attività extra-lavorativa in malattiaIn particolare, il contenzioso riguardava un lavoratore che era rimasto vittima di un infortunio e che durante l’assenza dal lavoro per malattia aveva prestato attività presso la farmacia della moglie.

Il datore di lavoro venuto a conoscenza del fatto, avviava un procedimento disciplinare, terminato con la comunicazione di un licenziamento per giusta causa.

Il lavoratore ritenendo ingiusto il licenziamento per attività lavorativa in malattia, lo ha impugnato avviando in giudizio arrivato fino alla Corte di Cassazione.

Durante il giudizio i testimoni hanno confermato il fatto contestato dal datore di lavoro.

Invero, è emerso che il lavoratore rimaneva occupato per la maggior parte del tempo in piedi, servendo e consigliando i clienti, rilasciando gli scontrini fiscali e parlando con i rappresentanti presso la farmacia della moglie. Ciò avveniva per circa sei ore al giorno.

Valutando le prove emerse, i Giudici hanno ritenuto che l’attività svolta dal lavoratore fosse molto gravosa, quasi con orario di lavoro a tempo pieno, e quindi tale da pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio.

I Giudici hanno quindi chiarito che costituisce infrazione disciplinare lo svolgimento di attività extra-lavorativa durante il periodo di assenza per malattia non solo se da tale comportamento deriva un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia anche solo messa in pericolo dalla condotta imprudente del lavoratore.

Costituisce infrazione disciplinare lo svolgimento di attività extra-lavorativa durante la malattia, quando la ripresa al lavoro è messa in pericolo dalla condotta imprudente del lavoratore

Nel caso in esame, i Giudici hanno ritenuto che l’attività svolta dal lavoratore presso la farmacia della moglie, fosse indice di scarsa attenzione non solo alla propria salute ma anche ai doveri di cura e di non ritardata guarigione, tale da pregiudicare o ritardare la guarnizione e il rientro al servizio.

I Giudici hanno quindi dato ragione al datore di lavoro, ritenendo che la gravità del comportamento tenuto dal lavoratore giustificasse il licenziamento (Cass. Civ. Sez. Lavoro 1/08/2017 n. 19089).

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Il caso riguarda una lavoratrice che ha ricevuto tramite un messaggino whatsapp la notizia del proprio licenziamento.

licenziamento con whatsappAppresa la brutta notizia, la lavoratrice ha impugnato con una lettera l’illegittimità del licenziamento, ha poi avviato un tentativo di conciliazione nei confronti del datore di lavoro, che ha avuto esito negativo ed infine ha promosso un giudizio in tribunale per far dichiarare illegittimo il provvedimento ed ottenere la reintegra nel posto di lavoro.

Il datore di lavoro si è difeso in giudizio, ribadendo la legittimità della propria decisione ed eccependo la tardività del giudizio avviato dalla lavoratrice.

Il Giudice, che ha affrontato il caso, ha dato ragione al datore di lavoro, vediamo per quali motivi…

Le questioni esaminate sono 2:

  1. se il licenziamento con whatsapp può considerarsi comunicato in forma scritta;
  2. se sono stati rispettati i termini previsti per legge per impugnare un licenziamento.

1. La forma scritta del licenziamento

Anzitutto, il licenziamento deve avere forma scritta. Lo stabilisce l’art. 2 L. 604/1966. In mancanza di forma scritta il licenziamento è inefficace.

Il Giudice ha ritenuto che il licenziamento con whatsapp assolve il requisito della forma scritta, trattandosi di documento informatico, che la lavoratrice ha con certezza attribuito al datore di lavoro, tanto da provvedere ad impugnarlo.

La comunicazione del licenziamento con whatsapp assolve l’onere della forma scritta.

Inoltre, il Giudice ha ritenuto raggiunta la prova della ricezione del licenziamento, valutando dimostrata la conoscenza del recesso da parte della lavoratrice sulla base della reazione manifestata dalla stessa, che ha impugnato l’atto.

2. I termini di impugnazione del licenziamento

L’art. 6 L. 604/1966, prevede una serie di termini entro i quali il lavoratore ha l’onere di impugnare il licenziamento a pena di decadenza.

In particolare, il licenziamento deve essere impugnato entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale (ad esempio, una raccomandata con avviso di ricevimento).

Tale impugnazione diventa inefficace se non è seguita nel successivo termine di 180 giorni dal deposito del ricorso in tribunale, oppure dalla comunicazione al datore di lavoro della richiesta di un tentativo di conciliazione o arbitrato. Se la conciliazione o l’arbitrato vengono rifiutati o non si raggiunge l’accordo per l’espletamento, il ricorso in tribunale deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Nel caso in esame, la lavoratrice aveva richiesto un tentativo di conciliazione, che si era però concluso con un mancato accordo. La lavoratrice ha depositato in tribunale il ricorso quando ormai era già scaduto il termine di decadenza di 60 giorni, sopra indicato.

Il Giudice ha quindi accolto l’eccezione del datore di lavoro, ritenendo che il licenziamento con whatsapp rispettasse il requisito della forma scritta e che il ricorso proposto dalla lavoratrice fosse tardivo ed ha confermato la validità del licenziamento (Trib. Catania Sez. lavoro, Ord., 27-06-2017).

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Il comportamento tenuto dal lavoratore nella propria vita privata, nel caso concreto possesso di sostanze stupefacenti, può giustificare un licenziamento da parte del datore di lavoro?

licenziamentoÈ il caso di un lavoratore, operaio addetto alla manutenzione di impianti elettrici di un’azienda, che è stato arrestato per detenzione di sostanze stupefacenti (500 grammi di hashish) .

Il datore di lavoro, venuto a conoscenza del fatto, lo ha licenziato in tronco.

Il lavoratore ritenendo ingiusto il licenziamento ha avviato un giudizio, ammettendo di aver patteggiato la pena nell’ambito del processo penale nel frattempo instaurato, ma lamentando che i fatti contestati erano estranei al rapporto di lavoro, riguardando la sua sfera personale e pertanto non avrebbero potuto incidere sul rapporto di fiducia con il datore di lavoro.

Il caso è arrivato fino alla Corte di Cassazione che con una recente sentenza ha dato ragione al datore di lavoro.

In particolare, i Giudici hanno ritenuto che la detenzione, anche al di fuori del lavoro, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, considerato che il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione lavorativa ma anche a non porre in essere fuori dall’ambito lavorativo comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro e comprometterne il rapporto di fiducia.

Attenzione, quindi, anche un comportamento tenuto fuori dal lavoro ed estraneo alla prestazione lavorativa può essere di gravità tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e giustificare il licenziamento.

Nel caso concreto, i Giudici hanno dato rilevanza al fatto che il lavoratore svolgeva la sua attività all’interno di uno stabilimento molto grande e frequentato da molti lavoratori e quindi che vi fosse il pericolo di diffusione nell’ambiente di lavoro delle sostanze stupefacenti detenute.

Inoltre, hanno rilevato la mancanza di trasparenza e sincerità del lavoratore nel rispondere alle ragioni del possesso della droga, in quanto, in un primo momento, il lavoratore aveva riferito di essere stato un mero trasportatore per conto di terzi di un plico di cui non conosceva il contenuto, circostanza smentita successivamente in sede del patteggiamento penale dove il lavoratore aveva invece ammesso l’addebito.

I Giudici hanno quindi ritenuto che la condotta del lavoratore sia stata tale da ledere il rapporto di fiducia e giustificare il timore del datore di lavoro di un comportamento atto ad incidere negativamente anche sull’ambiente di lavoro ed hanno quindi ritenuto legittimo il licenziamento, dando ragione al datore di lavoro (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-03-2017, n. 8132).

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obbligo-di-repechageIl caso riguarda un lavoratore che, in aggiunta alle proprie mansioni, ha svolto per diversi anni mansioni rientranti in un livello superiore rispetto a quello riconosciutogli dal datore di lavoro.

Rivolta ripetutamente al datore di lavoro la richiesta di riconoscimento della qualifica superiore, il lavoratore si è visto costantemente negare tale riconoscimento.

Dopo circa tre anni senza ottenere la qualifica superiore, il lavoratore decideva di opporre al datore di lavoro il rifiuto di svolgere quelle mansioni che rientravano nella qualifica superiore, continuando a svolgere soltanto le mansioni che rientravano nel proprio livello di inquadramento.

Il datore di lavoro, ritenendo di aver esercitato nel modo corretto il proprio potere di modifica delle mansioni assegnate e che il rifiuto opposto dal lavoratore costituisse insubordinazione, ha reagito comunicando il licenziamento disciplinare.

Il lavoratore ha impugnato il licenziamento reputandolo ingiusto ed ha avviato un contenzioso arrivato fino alla Corte di Cassazione.

Esaminate le prove, i Giudici hanno anzitutto accertato che le mansioni svolte corrispondevano effettivamente alla qualifica superiore richiesta dal lavoratore.

Sono poi stati confrontati entrambi i comportamenti: da un lato, il rifiuto del lavoratore di svolgere le sole mansioni rientranti nella qualifica superiore, e dall’altro lato, il rifiuto del datore di lavoro di riconoscere la qualifica superiore a cui corrispondevano le mansioni svolte.

È stata data quindi rilevanza al fatto che il lavoratore abbia limitato il proprio rifiuto alle sole mansioni superiori, continuando a svolgere le altre, sicché il rifiuto (parziale) è stato ritenuto proporzionato all’inadempimento a propria volta commesso dal datore di lavoro che non ha riconosciuto la superiore qualifica ripetutamente richiesta e dovuta.

Il rifiuto parziale del lavoratore è stato ritenuto proporzionato all’inadempimento del datore di lavoro

I Giudici hanno quindi dato ragione al lavoratore, ritenendo che il comportamento dello stesso non fosse tale da giustificare la sanzione del licenziamento, che è stato quindi dichiarato illegittimo (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-10-2016, n. 20222).

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tentativo-di-conciliazione-obbligatorioChe cosa è e quando si applica il tentativo di conciliazione obbligatorio previsto per i casi di licenziamento per motivo oggettivo?

Il tentativo di conciliazione obbligatorio è una procedura che, ricorrendo alcuni presupposti, deve essere obbligatoriamente effettuata prima di procedere ad un licenziamento per motivo oggettivo (ossia, quello determinato da ragioni che non dipendono dal comportamento del lavoratore come ad esempio quello motivato da riorganizzazione aziendale, soppressione della mansione, sopravvenuta infermità).

Quando le aziende sono tenute al rispetto di questa procedura? Sono tenute ad avviare il tentativo di conciliazione obbligatorio le aziende con più di 15 dipendenti, salvo nelle seguenti ipotesi:

  • licenziamenti a cui si applicano le norme sulle tutele crescenti;
  • licenziamenti per superamento del periodo di comporto;
  • licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi appalto ai quali siano seguite assunzioni presso altri datori di lavoro in attuazione delle clausole contenute nei CCNL che garantiscano la continuità dell’occupazione;
  • interruzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili per completamento delle attività e chiusura del cantiere.

Come si svolge il tentativo di conciliazione obbligatorio?

In pratica, l’azienda deve inviare una comunicazione all’ITL (Ispettorato Territoriale del Lavoro, in precedenza chiamato DTL Direzione Territoriale del Lavoro) e al lavoratore, dando notizia dell’intenzione di interrompere il rapporto di lavoro con il dipendente.

Nel sito internet dell’ITL, nella sezione modulistica, è scaricabile il modulo prestampato relativo proprio a questa comunicazione. Il modulo contiene dei campi da compilare relativi all’indicazione delle parti, al rapporto di lavoro, alle motivazioni del licenziamento e alle eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore.

Ricevuta la comunicazione, l’ITL provvede a trasmettere nel termine di 7 giorni la convocazione del datore di lavoro e del lavoratore.

All’incontro fissato viene verificata la possibilità di raggiungere un accordo sulla risoluzione del rapporto o l’applicazione di altre soluzioni come eventualmente l’assegnazione ad altre mansioni.

Se l’accordo viene raggiunto, le condizioni concordate vengono scritte in un verbale e in caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro il lavoratore, se ne ha i requisiti, potrà ottenere l’indennità di disoccupazione.

Se invece non si raggiunge alcun accordo, il datore di lavoro è a quel punto libero di comunicare il licenziamento. Parimenti, se l’ITL non provvede a trasmettere la convocazione entro il termine di 7 giorni il datore di lavoro può procedere con la comunicazione del licenziamento.

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