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separazione di fattoLa separazione di fatto è una forma di separazione ormai sempre più utilizzata dalle coppie sposate per interrompere la convivenza matrimoniale senza formalizzare la separazione, né renderla ufficiale.

Soprattutto quando i coniugi hanno una lunga vita matrimoniale alle spalle, o quando sono in grado di gestire civilmente i propri rapporti anche senza un documento ufficiale, la separazione di fatto può aiutare i coniugi a stemperare le tensioni.

Ma la separazione di fatto può essere una soluzione definitiva o si tratta di un temporaneo interregno tra il matrimonio e la separazione legale?

Quali sono le conseguenze giuridiche di questa scelta? Si tratta di un’opzione conveniente? La separazione di fatto è sostenibile nel lungo periodo?

Facciamo chiarezza.

Cos’è la separazione di fatto e perchè adottarla?

La separazione di fatto si verifica quando i coniugi decidono di interrompere la convivenza matrimoniale, senza avviare una separazione legale. Non essendo regolata da un provvedimento giuridicamente rilevante, la separazione di fatto non comporta lo scioglimento dei doveri coniugali sanciti dal matrimonio, come l’assistenza morale e materiale.

Ma allora, perchè i coniugi decidono di separarsi senza dare conseguenza giuridica alla loro decisione?

Le motivazioni più comuni che inducono i coniugi a scegliere la separazione di fatto sono sostanzialmente due: nel caso in cui abbiano il desiderio di interrompere subito una convivenza divenuta difficile e sperimentare un nuovo assetto famigliare (soprattutto quando ci sono figli minori) e, dall’altro lato, di limitare i costi necessariamente connessi alla separazione legale .

La sperimentazione di un periodo di separazione può anche avere lo scopo di distendere gli animi, nel tentativo di risolvere problemi coniugali ormai opprimenti e migliorare la relazione, nella speranza che un periodo di tregua possa aiutare la coppia a ritrovarsi e rinnovare il rapporto.

La separazione di fatto, tuttavia, è spesso il preludio alla separazione legale e serve a prendere confidenza con la gestione separata dei figli, nonché a valutare, in modo più consapevole, come articolare il miglior regime di affidamento e collocamento dei figli minori.

In tali casi, sarà necessario che i coniugi concordino come gestire i figli minori, prevedendo i tempi di permanenza con ciascun genitore e stabilendo anche come gestire anche il mantenimento dei figli. Nel caso in cui uno dei due genitore provveda ad erogare un contributo per il mantenimento dei figli, sarà opportuno che tale versamento venga effettuato con modalità tracciabili e con una causale chiaramente riconducibile.

Spesso i coniugi si renderanno conto della necessità di addivenire alla formalizzazione degli accordi e nella maggior parte dei casi la separazione di fatto individua un periodo transitorio che normalmente porta ad una riappacificazione dei coniugi o ad una separazione legale.

Talvolta, tuttavia, la separazione di fatto è attuata come regime pressoché definitivo da coppie attempate, che hanno trascorso una vita intera insieme, hanno figli ormai adulti e indipendenti ai quali intendono lasciare il proprio patrimonio, non hanno alcuna intenzione di risposarsi e non vedono, quindi, ragione alcuna per dare forma giuridica al reciproco desiderio d’indipendenza, affrontando costi ritenuti non necessari. Una simile scelta, tuttavia, se vista come definitiva, potrebbe avere, in futuro, implicazioni legali non preventivate ed è pertanto sempre opportuna l’assistenza di un avvocato divorzista esperto in diritto di famiglia.

Con la separazione di fatto viene meno l’obbligo di fedeltà coniugale?

Se è vero, infatti, che la separazione di fatto non interrompe, né sospende il vincolo matrimoniale e mantiene intatti tutti i diritti e i doveri che sorgono con il matrimonio, è pur vero che con la separazione di fatto, soprattutto se protratta per un lungo periodo, i coniugi dichiarano, sia pur solo de facto, l’apertura della crisi coniugale.

La conseguenza giuridica dell’evidenza di una crisi coniugale in atto, rispetto all’obbligo di fedeltà è che il coniuge che constati l’infedeltà dell’altro coniuge dopo aver interrotto la convivenza, certamente non potrebbe ottenere in giudizio l’addebito della separazione in capo al coniuge infedele se dovesse avviare in seguito una separazione giudiziale, poiché non potrebbe imputare all’infedeltà del coniuge la crisi coniugale, dichiaratamente aperta con la separazione di fatto.

Al fine di escludere la possibilità che uno dei due coniugi, dopo aver acconsentito ad una separazione di fatto, possa tentare di far valere la violazione degli obblighi che nascono dal matrimonio, tuttavia, è opportuno rivolgersi in via preventiva ad un avvocato divorzista anche solo per una consulenza, volta a verificare i rischi connessi a tale soluzione, soprattutto se i coniugi sono in comunione dei beni.

La separazione di fatto scioglie la comunione dei beni?

La risposta a questa domanda è “assolutamente no!”. Ma ciò, in pratica, cosa comporta?

Le conseguenze di mantenere nel lungo periodo una separazione di fatto quando la coppia è in comunione dei beni è di mantenere vigente la comunione dei beni, con ogni conseguenza connessa. Ogni bene che ciascuno dei due coniugi acquisterà durante il periodo di separazione non formalizzato, infatti, continuerà ad essere di proprietà anche dell’altro coniuge e, se ciò non ha alcuna rilevanza pratica per acquisti della vita quotidiana, potrebbe diventare un problema rilevante nel momento in cui uno dei coniugi necessitasse acquistare un’automobile o una nuova abitazione.

In questi casi, protrarre oltre il lasso di tempo necessario alla minima sperimentazione una separazione di fatto, pertanto, può diventare rischioso e aggiungere un ulteriore problema che dovrà poi essere gestito quando i coniugi decideranno di tentare un accordo per una separazione consensuale o, ancor peggio, se il conflitto si dovesse accendere e dar luogo ad una separazione giudiziale.

Che differenza c’è tra una separazione di fatto e una separazione consensuale?

Abbiamo visto che in certi casi, dunque, la separazione di fatto non può costituire una soluzione definitiva e i coniugi dovranno formalizzare i propri accordi. In questi casi, una sperimentazione positiva del periodo di interruzione della convivenza potrebbe indurre i coniugi a mantenere gli accordi già sperimentati. In tal caso la separazione legale potrà avvenire in via consensuale e costituire una mera formalizzazione degli accordi già raggiunti che, ove i coniugi si avvalgano ciascuno dell’assistenza di un proprio legale, potrà costituire oggetto anche di una negoziazione assistita.

Saranno, dunque, gli avvocati a stendere l’accordo da inviare alla Procura della Repubblica per la necessaria autorizzazione qualora la coppia abbia figli minori, o del nulla osta, nel caso in cui non vi siano figli o siano divenuti maggiorenni ed economicamente indipendenti.

In via alternativa, quando i coniugi ritengano di poter raggiungere un accordo duraturo, anche per il divorzio, potranno rivolgersi al Tribunale di competenza con un ricorso per separazione consensuale che contenga, contestualmente, anche un’istanza per un divorzio congiunto e ne riporti analiticamente i contenuti.

In tal modo, pur permanendo le differenze tra divorzio e separazione, le parti potranno predeterminare le condizioni del divorzio sin dal momento della separazione e chiedere al Tribunale che, una volta omologata la separazione, sia fissata un’udienza successiva al semestre che deve trascorrere per legge, in modo da rendere quasi automatico il divorzio.

Con una simile regolamentazione, le parti passerebbero da una separazione di fatto al divorzio congiunto riducendo al minimo lo stress conseguente alla crisi familiare.

 

 

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avvocato divorzistaLa crisi della coppia è un momento estremamente delicato nella vita di un marito e ancor più di un padre.

Oltre all’ovvia sofferenza psicologica, infatti, la separazione porta con sé la necessità di ridefinire integralmente i contorni dell’esistenza dei coniugi e i rapporti economici e genitoriali per trasformarli in un

Quando uno dei due coniugi decide di non voler proseguire la convivenza matrimoniale, pertanto, è fondamentale rivolgersi ad un avvocato divorzista esperto in diritto di famiglia, allo scopo di valutare ogni possibile risvolto della crisi e affrontare la situazione nel modo più sereno possibile e tutelare i propri diritti.

Quali sono le domande da rivolgere all’avvocato divorzista prima di avviare la separazione?

Per affrontare una separazione è necessario che la persona, soprattutto se è l’uomo della coppia, sia ben informata di tutto ciò che può accadere nella gestione della crisi familiare e di come si svolgono le tappe di separazione e divorzio.

Innanzitutto, prima di poter arrivare al divorzio la legge italiana prevede – salvi casi eccezionali che qui non si affronteranno – che debba necessariamente avvenire la separazione dei coniugi.

Che differenza c’è tra separazione e divorzio?

Rimandando ad altro recente articolo l’approfondimento sulle differenze tra divorzio e separazione, l’avvocato divorzista dovrebbe quanto meno spiegare che:

  • la separazione sospende i doveri coniugali tipici (per es. l’obbligo di coabitazione e di fedeltà), ma anche dopo la separazione i coniugi restano sposati (con ogni effetto conseguente anche sotto il profilo ereditario);
  • il divorzio scioglie definitivamente gli effetti civili del matrimonio e vi pone fine, tanto che gli ex-coniugi possono contrarre un nuovo matrimonio.

Quanto tempo ci vuole per ottenere la separazione?

Un avvocato divorzista non può che rispondere  a questa domanda che con il classico “dipende”.

La separazione, infatti, può essere ottenuta in modi e tempi molto diversi a seconda di quanto è litigiosa la coppia e di quanto sono lontane le rispettive posizioni.

La separazione consensuale

Se i coniugi sono in grado di accordarsi su tutti i temi che al momento della separazione si devono disciplinare (affidamento, collocamento e mantenimento dei figli, assegnazione della casa coniugale, mantenimento del coniuge debole), si potrà ottenere una separazione consensuale.

Spesso ho sentito dire frasi del tipo “Mia moglie non mi concede la separazione consensuale“, come se la separazione consensuale fosse un oggetto che si consegna.

In realtà perché si possa avere una separazione consensuale è necessaria una trattativa, la cui durata dipende, nuovamente, dalla capacità transattiva delle parti e dalla loro volontà di raggiungere un accordo.

Come avvocato divorzista mi è capitato di raggiungere un accordo con un solo incontro in presenza dei due coniugi e dei due avvocati, ma mi è altresì capitato di dover affrontare lunghe trattative che talvolta si sono positivamente concluse con un accordo e talaltra, invece, si sono concluse con una frattura insanabile che ha portato ad una separazione giudiziale.

La separazione giudiziale

Salvo che non vi siano ragioni di gravità ed urgenza (maltrattamenti, violenze, tossicodipendenze o alcoolismo, per esempio), nessun avvocato divorzista serio avvierà mai una separazione depositando un ricorso per separazione giudiziale, senza neppure aver tentato la via della trattativa per comprendere se vi siano i presupposti per una separazione consensuale.

Tuttavia, talvolta, la distanza delle posizioni rispettive tenute dai coniugi non rende possibile il raggiungimento di un accordo.

In tal caso uno dei due coniugi dovrà depositare un ricorso per separazione giudiziale al Tribunale competente, al fine di ottenere dal Giudice ciò che non sono riusciti ad ottenere dall’altro coniuge.

La separazione giudiziale parte dunque con un ricorso, in seguito al quale il Tribunale fissa un’udienza, prima della quale, dopo la riforma Cartabia, gli avvocati divorzisti di entrambe le parti dovranno depositare diversi scritti difensivi, esponendo le diverse posizioni, rivolgendo al Giudice le rispettive richieste e proponendo prove documentali e testimoniali.

Il Giudice alla prima udienza ascolterà entrambe le parti personalmente e tenterà di conciliare le rispettive posizioni per consensualizzare la separazione.

Per esperienza, sebbene la riforma Cartabia abbia introdotto una procedura che ha come effetto quello di inasprire il conflitto prima dell’incontro in Tribunale, il Giudice in udienza ha spesso l’autorevolezza necessaria per convincere le parti a limare le rispettive asperità e trovare il giusto punto d’incontro per consensualizzare la separazione.

Quando tuttavia neppure il Giudice riesce a far accordare le parti, il giudizio proseguirà e il Giudice dovrà decidere se ascoltare i testimoni eventualmente indicati dalle parti e prendere i provvedimenti provvisori e urgenti, o se incaricare un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) per dirimere conflitti per esempio sul collocamento prevalente dei figli minori o sui redditi effettivi delle parti o su altre questioni rilevanti per le quali ritenga di doversi avvalere di un esperto.

Il Giudice potrebbe anche ritenere la causa pronta per essere definita e, come spesso accade, non ascoltare i testimoni indicati dalle parti, né avviare alcuna CTU e, in tal caso, la causa si avvierà verso la sua conclusione.

Con chi vivranno i figli dopo la separazione?

Dopo la separazione i figli minorenni continueranno a vivere insieme al genitore che sarà ritenuto il genitore di riferimento che, al contrario di quanto spesso si ritiene, non è necessariamente la mamma.

Mi è capitato spesso di parlare con padri che, pur essendo indubbiamente i genitori di riferimento dei propri figli, si erano già sentiti dire dalle rispettive moglie che sarebbero stati loro a lasciare la casa coniugale ed a pagare un mantenimento per i figli. In realtà la circostanza non è né vera, né scontata.

Il padre e la madre, infatti, sono ormai posti sullo stesso piano dal principio di bigenitorialità.

Se, dunque, durante il matrimonio era il padre ad essersi occupato in prevalenza dei figli, magari perchè la madre era più impegnata del marito a fare carriera, è il padre ad aver diritto di continuare a vivere con i bambini e ad ottenere il collocamento prevalente degli stessi.

Ciò detto, non intendo illudere i padri sostenendo che sia un’impresa facile, anche quando ve ne siano i presupposti, farsi riconoscere dalla moglie ciò che di fatto si sarebbero guadagnati sul campo.

Al contrario di quanto accade a parti invertite, infatti, al momento della separazione, spesso una madre fatica a riconoscere di aver lasciato al marito il ruolo di genitore di riferimento per i figli anche quando è conclamato che fosse il marito a gestire in prevalenza i bambini ed a soddisfare i loro bisogni nel corso del matrimonio.

Ritengo, come avvocato divorzista, che tale inclinazione dipenda anche dal disvalore sociale che ancora si attribuisce ad una madre che non convive in via prevalente con i figli, senza considerare che la “parità dei sessi” obbliga necessariamente le madri che vogliono fare carriera a lasciare che i padri acquistino un ruolo più rilevante anche all’interno dell’organizzazione famigliare.

Sempre più spesso accade, infatti, che i genitori gestiscano i figli, durante il matrimonio, in modo assolutamente paritario, spartendosi equamente i compiti di cura e accudimento degli stessi.

In tal caso, al momento della separazione, dovrà essere privilegiato un collocamento paritario che consenta ai bambini di continuare a godere della vicinanza di entrambi i genitori, come avveniva prima della loro separazione.

In ogni caso, proprio grazie al diritto dei figli di mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori ed i rispettivi rami parentali, nessuno dei due genitori dovrebbe ormai rischiare di “perdere” i propri figli e nessuno dei due genitori dovrebbe mai “portar via i figli” all’altro.

Anche nel caso in cui i figli debbano essere collocati in via prevalente ad uno dei due genitori, grazie all’affidamento condiviso, entrambi i genitori manterranno integra la propria responsabilità genitoriale e potranno godere di un diritto di visita tanto ampio quanto sarà ritenuto opportuno nell’interesse dei minori.

 Chi potrà continuare a vivere nella casa coniugale?

Il genitore di riferimento, oltre al collocamento prevalente dei bambini presso di sé, avrà altresì il diritto di continuare a vivere nella casa coniugale insieme ai figli, ottenendone l’assegnazione.

La legge prevede, infatti, che il Giudice debba salvaguardare il diritto dei figli a conservare, anche a seguito della separazione dei genitori, le proprie abitudini di vita quotidiana, rimanendo a vivere nella casa coniugale insieme al genitore dal quale sono prevalentemente accuditi.

In ragione di ciò, anche se entrambi i genitori avranno l’affidamento condiviso dei figli minorenni, se uno dei due genitori avrà il collocamento prevalente dei bambini presso di sé, avrà diritto di continuare a vivere con i figli nella casa coniugale a prescindere da chi ne sia il proprietario.

Se la casa coniugale fosse in affitto, il genitore a cui verrà assegnata avrà diritto di subentrare nel contratto di locazione (se intestato al coniuge) alle medesime condizioni vigenti e il proprietario di casa non avrà facoltà d’impedirlo.

Mia moglie ha diritto a un assegno di mantenimento?

Nel corso della mia carriera di avvocato divorzista, spesso ho dovuto fronteggiare con i miei clienti richieste di assegno di mantenimento da parte di mogli che nella maggioranza dei casi non ne avevano diritto.

Quando spetta alla moglie l’assegno di mantenimento? Questo chiarimento compete all’avvocato divorzista.

L’assegno di mantenimento personale può essere richiesto dalla moglie quando non abbia un reddito proprio che le consenta di mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.

E’ tuttavia evidente che, in molti casi, a seguito della separazione, duplicando i costi, nessuno dei due coniugi potrà mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Inoltre il Giudice dovrà tenere in considerazione anche altri fattori.

E’ vero infatti che la casa coniugale viene assegnata al genitore prevalente perché possa continuare a vivervi con i figli, ma è altresì vero che l’assegnazione alla madre di una casa che sia parzialmente, o ancor peggio integralmente, di proprietà del marito, costituisce un vantaggio economico per la stessa che il Giudice dovrà considerare.

Per stabilire se alla moglie spetti un contributo al proprio mantenimento da parte del marito, dunque, il Giudice dovrà considerare i redditi e i patrimoni di entrambi i coniugi (una moglie potrebbe infatti non lavorare ma avere un patrimonio immobiliare che le consente di vivere di rendita), l’ulteriore vantaggio economico dell’assegnazione della casa coniugale se di proprietà del marito, eventuali debiti di entrambi (mutui e finanziamenti), il costo della casa coniugale e il tenore di vita goduto durante il matrimonio per determinare se alla moglie spetti o meno un contributo al proprio mantenimento da parte del marito.

Non è quindi sufficiente che la moglie lavori per scongiurare al marito l’obbligo di versarle un assegno di mantenimento se il reddito che la stessa percepisce è di gran lunga inferiore a quello del marito o non le consente di mantenersi dignitosamente.

Certamente, qualora la moglie non abbia un reddito proprio, come avvocato divorzista mi premurerei di avvisare il marito che sarà verosimilmente tenuto a contribuire al suo mantenimento, a meno che la perdita del lavoro da parte della moglie non sia stata volontaria ed ingiustificata.

Devo anche chiarire che ho espressamente riferito l’assegno di mantenimento solo alla moglie perchè nella mia lunga carriera non mi è mai capitato che fosse un marito a chiedere l’assegno di mantenimento per sé alla moglie, né ho mai visto sentenze che condannassero la moglie a mantenere il marito.

I tempi stanno cambiando e così come ho assistito padri che hanno ottenuto il collocamento prevalente dei figli minori – una volta molto più raro – non escludo che presto sarà più frequente leggere sentenze che attribuiscano un assegno di mantenimento a favore del marito.

Dovrò pagare qualcosa a mia moglie per il mantenimento dei figli?

Il contributo al mantenimento dei figli è spesso dovuto dal genitore che non ha il collocamento prevalente.

A differenza di quanto ho riferito per l’assegno di mantenimento a carico della moglie in favore del marito, come avvocato divorzista ho assistito padri che, avendo avuto il collocamento prevalente dei propri figli, oltre ad ottenere l’assegnazione della casa coniugale, hanno altresì ricevuto un contributo al mantenimento per i figli collocati in via prevalente presso di loro.

Il contributo al mantenimento dei figli, oltre ad essere parametrato ai redditi dei genitori, è altresì rapportato – o così dovrebbe essere – anche agli obblighi di accudimento assunti dai genitori e ai tempi di permanenza dei figli presso l’uno e l’altro genitore.

A fronte di redditi equivalenti e di un collocamento paritario, pertanto, entrambi i genitori dovranno provvedere direttamente al mantenimento dei figli, senza che vi sia alcun passaggio di denaro dall’uno all’altro.

Ogni avvocato divorzista vi potrà confermare, invece, che a fronte di uno squilibrio reddituale rilevante, anche a fronte di un collocamento paritario, sarà verosimilmente dovuto un assegno di mantenimento al coniuge economicamente più debole, al fine di perequare la situazione finanziaria dei due genitori.

Se poi, oltre allo squilibrio reddituale, il genitore meno abbiente sarà il genitore collocatario dei figli minori, verosimilmente avrà diritto ad un assegno di mantenimento per i figli stessi, al fine di poter provvedere a quanto necessario per la cura e l’accudimento degli stessi.

Cosa sono le spese straordinarie?

Le spese straordinarie sono tutte quelle spese che un genitore deve sostenere per i figli e che non sono ricomprese nel contributo al mantenimento ordinario.

Le spese straordinarie possono essere spese mediche, scolastiche o extrascolastiche, devono essere sempre documentate dal genitore che le sostiene e chiede all’altro di rifondere la propria parte e sono suddivise spesso in spese che richiedono e spese che non richiedono il preventivo accordo.

Anche solo in Lombardia, i Protocolli relativi alle spese straordinarie, sottoscritti tra gli avvocati divorzisti, i consigli degli ordini territoriali degli avvocati e i Tribunali sono diversi da distretto a distretto.

Solo per fare un esempio, il Protocollo del Tribunale di Bergamo e il Protocollo del Tribunale di Lecco prevedono la mensa scolastica tra le spese straordinarie, mentre il Protocollo del Tribunale di Brescia, così come il Protocollo del Tribunale di Monza e il Protocollo del Tribunale di Milano, in ossequio alle conformi decisioni in merito della Corte di Cassazione, includono la mensa nel contributo ordinario al mantenimento.

Quanto tempo deve passare tra la separazione e divorzio?

Come avvocato divorzista, esperta in diritto di famiglia, mi sono spesso trovata a rispondere a questa domanda, ma anche in questo caso la risposta è diversa a seconda che le parti abbiano optato per una separazione consensuale o per una separazione giudiziale.

I coniugi che si separano consensualmente, infatti, possono divorziare sei mesi dopo, mentre i coniugi che si sono trovati ad affrontare una separazione giudiziale dovranno attendere  almeno un anno prima di poter divorziare.

La riforma Cartabia, tuttavia, ha introdotto la possibilità di depositare con il ricorso per separazione consensuale anche il ricorso per il divorzio congiunto ed in tal caso sarà il Tribunale a fissare direttamente l’udienza (che si potrà svolgere anche per iscritto senza necessità che i coniugi presenzino), in modo da pronunciare il divorzio con una specie di automatismo, decorsi i 6 mesi dalla separazione.

Conclusione

Affrontare una separazione e un divorzio è un processo complesso che richiede assistenza legale qualificata. Parlare con un avvocato divorzista esperto in diritto di famiglia ti aiuterà a chiarire i tuoi diritti e ad affrontare la situazione con maggiore sicurezza.

Se hai bisogno di consulenza personalizzata, contatta lo Studio Legale Tassinari & Sestini per una prima valutazione del tuo caso.

 

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differenze tra divorzio e separazione La maggior parte delle persone ancora pensa che non ci siano differenze tra divorzio e separazione e che i due concetti siano sostanzialmente sinonimi.

Quando, tuttavia, uno dei due coniugi, magari scimmiottando i film americani, pronuncia la fatidica frase “Voglio il divorzio!”, immancabilmente scopre che in Italia non funziona cosi e che prima di ottenere il divorzio deve affrontare la separazione.

Non solo, dunque, separazione e divorzio non sono sinonimi, ma prima di poter divorziare ci si deve separare? Esattamente!

Le principali differenze tra divorzio e separazione.

Abbiamo già accennato che prima di poter divorziare una coppia sposata deve passare attraverso la procedura della separazione, con la quale i coniugi ottengono il diritto a vivere separati, con l’obbligo del reciproco rispetto.

A differenza del divorzio, che scioglie definitivamente il vincolo matrimoniale, con la separazione i coniugi rimangono ancora uniti in matrimonio ed è sufficiente che ripristinino la convivenza per annullare la separazione.

La riconciliazione dei coniugi può anche essere espressamente dichiarata all’ufficiale dell’anagrafe del comune di residenza ed essere trascritta sul certificato di matrimonio, ma anche in assenza di una dichiarazione ufficiale, il ripristino della convivenza tra i coniugi annulla gli effetti della separazione e dopo una riconciliazione per poter divorziare si dovrà avviare una nuova procedura di separazione.

La non definitività della separazione e la possibilità che i coniugi, dopo aver sperimentato un periodo di separazione, possano riconciliarsi e ripristinare il rapporto matrimoniale senza particolari adempimenti burocratici è una delle differenze tra divorzio e separazione.

La separazione è una sospensione dei diritti e dei doveri derivanti dal vincolo matrimoniale, quali, per esempio, il dovere di coabitazione e il dovere di fedeltà, ma non vengono meno gli obblighi di assistenza morale e materiale.

Tante persone, a questo punto, pensano che la separazione, essendo un periodo di sospensione dei doveri matrimoniali, sia solo un passaggio obbligatorio ma inutile, nel quale non si prendono decisioni importanti.

Spesso, pertanto, le persone ritengono, erroneamente, che ogni decisione fondamentale si possa rinviare al momento del divorzio.

In realtà, non solo non è così, ma è proprio il contrario.

In quale momento si stabiliscono le condizioni che i coniugi dovranno osservare quando non vivranno più insieme?

Con la separazione, che è antecedente e prodromica al divorzio, vengono stabilite tutte le condizioni e le regolamentazioni più opportune affinché i coniugi, che tali ancora sono, possano gestire i propri rapporti e, soprattutto, i rapporti con i figli sotto ogni profilo.

E’ dunque in sede di separazione che si determina, in modo che spesso diventa definitivo, lo schema che dovrà essere osservato per la vita futura dei coniugi.

Sebbene, poi, i presupposti per l’erogazione di un assegno divorzile in favore del coniuge debole siano diversi da quelli che sorreggono l’assegno di mantenimento personale precedentemente previsto in sede di separazione, spesso accade che il Giudice del divorzio confermi le somme già decise in sede di separazione, soprattutto se le condizioni economiche delle parti non sono mutuate.

Ciò accade soprattutto quando il lasso di tempo trascorso tra la separazione e il divorzio è quello minimo (6 mesi in caso di separazione consensuale, 1 anno in caso di separazione giudiziale), e quando il contributo previsto per il mantenimento del coniuge economicamente più svantaggiato è di minima entità (qualche centinaia di euro).

Approfondiamo la questione relativa all’assegno di mantenimento per il coniuge ed all’assegno divorzile in uno specifico articolo, ma ci teniamo a precisare in questa sede che i presupposti sono differenti e che ciò dovrebbe sempre indurre i Giudici a valutare nuovamente la situazione al momento del divorzio.

Le differenze tra divorzio e separazione sotto il profilo economico e patrimoniale.

I presupposti per il contributo economico dato al coniuge, non sono, tuttavia, le uniche differenze tra divorzio e separazione sotto il profilo economico-patrimoniale.

Se, infatti, dopo la separazione i coniugi mantengono il rapporto di coniugio e sono ancora tenuti a sostenersi reciprocamente, con il divorzio, gli ex-coniugi (a questo punto davvero ex) interrompono ogni legame giuridico e potremmo dire, in assenza di figli, che tornano ad essere single.

Tanto ciò è vero che gli ex-coniugi divorziati possono contrarre nuovo matrimonio con altri partner.

Sotto il profilo economico, il coniuge separato mantiene il diritto alla pensione di reversibilità del coniuge premorto, il diritto di abitazione vitalizio della casa coniugale e dell’uso dei mobili che l’arredano, dopo la morte del coniuge.

Dopo il divorzio, invece, i coniugi perdono tali diritti e il diritto alla pensione di reversibilità permane solo in favore del coniuge che abbia a proprio favore un assegno divorzile e solo in proporzione alla durata del matrimonio.

L’ex-moglie divorziata che percepisce un assegno divorzile, sia pur minimo, dall’ex marito, oltre a poter richiedere una percentuale del TFR del marito se egli dovesse cambiare lavoro o andare in pensione dopo il divorzio, alla morte di questi potrebbe doversi contendere la pensione di reversibilità con la nuova moglie, sulla base della durata dei rispettivi matrimoni.

Le differenze tra divorzio e separazione sotto il profilo ereditario.

Sotto il profilo ereditario le differenze tra divorzio e separazione sono molto evidenti.

Se il coniuge separato, essendo ancora legato dal vincolo coniugale, eredita allo stesso identico modo di un coniuge non separato, vantando persino la quota di “legittima” riservata al coniuge, l’ex-coniuge divorziato esce completamente dall’asse ereditato dell’altro e, alla morte di questi, non potrà vantare alcun diritto.

Per intenderci, la persona divorziata non erediterà nulla dall’ex coniuge, a meno che questi non l’abbia espressamente nominata nel proprio testamento, per lasciarle una parte del proprio patrimonio.

Ed anzi, qualora l’ex-coniuge divorziato avesse contratto nuovo matrimonio, sarà il nuovo coniuge a vantare la quota di legittima sul patrimonio dello stesso al momento della sua morte.

differenze tra divorzio e separazioneLe differenze tra divorzio e separazione si annullano quando si parla di affidamento e mantenimento dei figli.

Non vi sono sostanziali differenze tra divorzio e separazione in ordine all’affidamento, al collocamento ed al mantenimento dei figli: se, dunque, le esigenze dei figli non sono mutate tra la separazione e il divorzio, rimanendo identici i presupposti (stipendi dei genitori, disponibilità di tempo degli stessi per accudire i figli, etc…) che avevano dato luogo alle condizioni che regolamentano la gestione dei figli in sede di separazione, tali condizioni verranno ribadite anche in sede di divorzio.

Se, dunque, in occasione della separazione era stato adottato – per decisione del Giudice o per accordo delle parti – un regime di visite e stabiliti eventuali contributi economici per il mantenimento dei figli, tale assetto sarà mantenuto anche nella sentenza di divorzio se effettivamente adottato dai genitori e se ancora coerente rispetto alla situazione di fatto dei figli.

E’ tuttavia evidente che il divorzio costituisce una seconda occasione per rimettere in discussione eventuali decisioni non più adeguate, qualora, nel frattempo, la gestione dei figli sia cambiata o sia mutata la situazione dei genitori che aveva costituito il presupposto per le condizioni adottate con la separazione. si può separare e divorziare anche con un avvocato solo?

Le differenze tra divorzio e separazione influiscono sulla scelta dell’avvocato?

Mi è capitato spesso di trovarmi ad assistere clienti uomini che al momento della separazione avevano deciso di recarsi dall’avvocato scelto dalla moglie, magari per risparmiare sulle spese legali o nella speranza di distendere gli animi assecondando la consorte.

Purtroppo però, nella stragrande maggioranza dei casi, tali clienti si erano poi trovati ad accettare delle condizioni capestro, difficili da sostenere nel lungo periodo, appunto con lo scopo evidente di porre fine rapidamente al conflitto famigliare, magari senza sapere che alcune condizioni (soprattutto se relative al collocamento e al mantenimento dei figli) non evidenziano grandi differenze tra divorzio e separazione e non si modificano da un passaggio all’altro.

Dopo aver sperimentato per diversi mesi, o talvolta anni, condizioni insostenibili ed aver visto la moglie separata prosperare nella casa coniugale, mentre loro continuano a pagarne il mutuo e si trovavano costretti a ridurre drasticamente il proprio tenore di vita anche per far fronte alle spese straordinarie per i figli a contributi di mantenimento già troppo elevati, i mariti che avevano scelto di recarsi dall’avvocato della moglie per risparmiare si rendono conto di non aver fatto un affare e mi chiedono come si possa intervenire perchè “io avvocato non posso andare avanti così!”.

Se alcune condizioni stabilite in sede di separazione sono difficili da modificare in sede di divorzio, è ancora più difficile modificare tali condizioni se si è deciso di depositare il ricorso per il divorzio congiunto unitamente al ricorso per la separazione consensuale, come ormai la Riforma Cartabia consente di fare.

Dopo la riforma Cartabia, pertanto, diventa ancora più importante che il marito si avvalga dell’assistenza di un avvocato divorzista per tutelare la propria posizione sin dal momento della separazione, a maggior ragione se si pensa di avvalersi della possibilità di depositare in Tribunale congiuntamente sia il ricorso per la separazione, sia il divorzio.

Differenze tra divorzio e separazione in 5 punti:

  1. La separazione è un passaggio obbligato sulla strada verso il divorzio: salvo casi eccezionali, infatti, non si può avere divorzio senza aver prima ottenuto la separazione
  2. I coniugi separati restano sposati e come tali sono trattati sia in vita (per esempio nel caso uno dei due si ritrovi in ospedale e non sia più in grado d’intendere e di volere) sia in caso di morte, poiché i coniugi separati ereditano l’uno dall’altro; mentre con il divorzio si scioglie definitivamente il matrimonio e gli ex-coniugi non avranno più altri legami che quelli dettati da eventuali figli
  3. Non vi sono differenze tra divorzio e separazione in relazione all’affidamento, al collocamento ed al mantenimento dei figli della coppia e ciò rende estremamente importante avvalersi di un buon avvocato divorzista, esperto in diritto di famiglia già in sede di separazione
  4. La moglie separata che percepisce un assegno di mantenimento potrà chiedere, al momento del divorzio, un assegno divorzile, che ha però presupposti diversi rispetto all’assegno di mantenimento ottenuto in sede di separazione e dovrà dimostrare di averne diritto
  5. La moglie divorziata conserva un diritto sia ad una quota del TFR del marito sia alla pensione di reversibilità solo se goda di un assegno divorzile, mentre la moglie separata conserva tutti i diritti legati al rapporto matrimoniale.
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Mantenimento figlio

“Mantenimento figlio” è la prima voce nell’elenco degli argomenti da discutere quando una coppia genitoriale si separa, sia nell’ambito di separazioni dei coniugi, sia in ogni giudizio che coinvolge genitori non sposati che decidono di interrompere la convivenza. E’ evidente che i genitori non smettono di essere tali nel momento in cui smettono di convivere ed entrambi dovranno continuare a contribuire alla crescita, all’educazione, alla cura dei propri figli anche sotto il profilo economico.

Considerato che è un diritto riconosciuto ai figli quello di mantenere un rapporto significativo con entrambi i genitori ed i rispettivi rami parentali, ci si potrebbe chiedere se non sia sufficiente che ciascun genitore continui ad occuparsi del proprio figlio quando lo tiene con sé, senza la necessità di prevedere passaggi di denaro tra i genitori.

Vediamo di dare una risposta a questa domanda, di comprendere la funzione dell’assegno di mantenimento e di analizzare tutte le questioni che le coppie separate si trovano ad affrontare in ordine al mantenimento del figlio.

1. Il mantenimento diretto

Quando entrambi i genitori si occupano direttamente del figlio nelle tempistiche tra loro concordate o decise da un Giudice, senza che sia previsto un contributo economico in favore di nessuno dei due per il mantenimento del figlio, si dice che i genitori sono in regime di “mantenimento diretto”.

In tal caso, entrambi spenderanno direttamente quanto necessario per nutrire i figli, dar loro un’abitazione pagandone i relativi costi, e acquistare per loro il vestiario necessario.

Il mantenimento diretto, tuttavia, può essere attuato nei casi di seguito elencati:

1) i genitori hanno redditi pressoché equivalenti e il figlio soggiorna in modo paritario con l’uno e con l’altro dei propri genitori (collocamento paritario o paritetico).

Per esempio: la madre guadagna 1600 € netti al mese per 14 mensilità (1600×14:12 mesi = 1866,66 €), il padre guadagna circa 1750 € netti al mese per 13 mensilità (1750×13:12= 1895,83 €), i figli trascorrono con i genitori settimane alternate e la casa coniugale e la casa coniugale era in locazione per cui entrambi pagano un canone per la propria abitazione.

2) il genitore che ha il collocamento prevalente ha un reddito sensibilmente superiore rispetto a quello del genitore non collocatario e non si è ritenuto opportuno stabilire un contributo economico da parte di questi, che contribuirà, proporzionalmente alle proprie possibilità, occupandosi del figlio nel periodo in cui lo terrà con sé.

Per esempio: il figlio è collocato prevalentemente presso il padre (circostanza che capita ormai più frequentemente che in passato) che guadagna circa 4000 € al mese per 13 mensilità (4000×13:12= 4333,33 €), mentre la madre, che tiene con sé il figlio 4  o 5 giorni al mese in meno rispetto al padre, guadagna 1600 € al mese per 14 mensilità ed entrambi hanno un canone di locazione da pagare.

2. Qual è la funzione dell’assegno di mantenimento del figlio e quando è dovuto?

Il mantenimento del figlio richiederà, invece, un contributo economico a favore del genitore economicamente più debole.

L’assegno di mantenimento figlio ha la funzione di consentirgli di mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante la convivenza dei genitori.

L’assegno di mantenimento, infatti, ha la funzione di consentire proprio al figlio di godere delle stesse possibilità sia quando si trova a vivere con la mamma, sia quando vive con il papà.

Facciamo un esempio: la mamma ha il collocamento prevalente del figlio minore, guadagna circa 1600 € al mese per 14 mensilità (=1866,66 € su 12 mesi) ed ha ottenuto l’assegnazione della casa coniugale di proprietà esclusiva del marito. La casa ha un valore locatizio di 800 € al mese ed è quindi come se la Signora ricevesse dal marito 800 € al mese per un canone di locazione, maturando un attivo mensile di € 2666,66.

Il marito guadagna circa 4000 € al mese per 13 mensilità (= 4333,33 € su 12 mesi) e, oltre a dover continuare ad onorare il un mutuo residuo con una rata di 400 € al mese, paga un canone di locazione di 800 € al mese per l’abitazione in cui si è trasferito e gli residueranno mensilmente 3133,33 € (= € 4333,33-800-400).

In tal caso, verosimilmente il padre in questione potrà essere tenuto a pagare un contributo per il mantenimento del figlio di 300/400 € che consentiranno alla madre di poter far fronte alle esigenze principali del minore senza dover limitare il suo tenore di vita.

3. Quali costi copre l’assegno di mantenimento figlio e cosa sono le spese straordinarie?

L’assegno di mantenimento contribuisce a coprire i costi ordinari del figlio, nei quali sono compresi il vitto (la spesa alimentare), l’alloggio (la quota parte delle utenze domestiche, spese condominiali, canone di locazione o mutuo, tari, etc.), il vestiario, i farmaci da banco e le piccole spese quotidiane.

Secondo le linee guida del CNF (Consiglio Nazionale Forense), il contributo al mantenimento dovrebbe ricomprendere anche buona parte dei costi prevedibili che un genitore è tenuto a sostenere per il figlio.

Tuttavia, in modo del tutto difforme, molti Protocolli sulle spese straordinarie previsti dai singoli Tribunali comprendono buona parte di tali costi tra le spese straordinarie da ripartirsi normalmente nella misura convenuta, normalmente al 50%.

4. Mantenimento figlio maggiorenne

I padri separati tenuti al mantenimento dei propri figli mi hanno spesso chiesto se il loro obbligo cessasse con il raggiungimento della maggiore età.

La risposta a questa domanda è no. Il raggiungimento della maggiore età non basta per esonerare i genitori dall’obbligo di mantenimento, ma è necessario che il figlio maggiorenne sia anche economicamente indipendente.

“Ma quindi devo mantenere mio figlio a vita?” mi sono sentita chiedere spesso. Anche a questa domanda posso finalmente affermare che la risposta è no.

Solo recentemente, infatti, la Corte di Cassazione ha aggiustato il proprio orientamento rendendo più stringenti i presupposti alla base del diritto del figlio maggiorenne al mantenimento, sino ad arrivare ad affermare che, se per il figlio appena maggiorenne l’iscrizione all’Università o la prosecuzione del corso di studi sono sufficienti a dimostrare il diritto ad essere mantenuto dai genitori, il figlio “adulto” che abbia ormai ultimato il proprio percorso scolastico dovrà dimostrare in modo rigoroso di aver vanamente cercato “un lavoro contemperando, fra di loro, le sue aspirazioni astratte con il concreto mercato del lavoro, non essendo giustificabile nel “figlio adulto” l’attesa ad ogni costo di un’occupazione necessariamente equivalente a quella desiderata”.

Non basterà dunque più al figlio maggiorenne sostenere di non aver trovato il lavoro che desidera per poter continuare a percepire l’assegno di mantenimento a carico del genitore obbligato, ma dovrà dimostrare di non aver reperito un’attività per circostanze esterne insuperabili.

Ciò significa che, ove l’assegno di mantenimento sia stato deciso quando il figlio era minorenne o comunque studente, il padre obbligato a versarlo alla ex-moglie, una volta che il ragazzo abbia ultimato il percorso di studi, trascorso il lasso di tempo mediamente necessario per trovare un lavoro, di fronte all’inerzia del figlio, potrà rivolgersi al Tribunale per ottenere la revoca del contributo, a prescindere dal fatto che il figlio abiti ancora in casa con la madre.

5. Modifica dell’assegno di mantenimento figlio

L’assegno di mantenimento figlio, tuttavia, può essere rivisto anche quando il figlio non ha ancora raggiunto l’indipendenza economica.

La modifica potrebbe essere anche volta ad aumentare l’assegno di mantenimento figlio per adeguarlo alle maggiori esigenze connesse alla crescita del figlio stesso, da bambino ad adolescente.

L’assegno di mantenimento figlio potrà anche essere in diminuzione, qualora le condizioni economiche del genitore obbligato al pagamento dovessero sensibilmente peggiorare, rendendo insostenibile l’impegno economico stabilito sulla base di altri presupposti reddituali e/o patrimoniali.

Tali condizioni si sono tristemente verificate per molti padri durante la pandemia del 2020 che comportò la chiusura di molte attività e mise in difficoltà molte persone in diversi settori lavorativi.

6. Conseguenze del mancato pagamento dell’assegno di mantenimento figlio

Tanti genitori in difficoltà pensano di risolvere il problema semplicemente smettendo di corrispondere l’assegno di mantenimento alla madre dei propri figli, anche senza aver ottenuto il suo assenso.

Smettere di pagare l’assegno di mantenimento per il figlio, tuttavia, è irresponsabile sia perchè rischia di mettere in difficoltà il figlio stesso, sia per le conseguenze penali ed economiche che può comportare a danno del genitore che si sottrae al pagamento.

Il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento costituisce reato ai sensi degli articoli 570 bis del codice penale, che punisce “il coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto“.

A fronte del mancato pagamento dell’assegno di mantenimento figlio, inoltre, il genitore in favore del quale è stabilito il contributo può ottenerne il pagamento da parte del datore di lavoro del genitore obbligato o attivare altre procedure per pignorare crediti e beni del genitore obbligato.

In caso di difficoltà a corrispondere l’assegno di mantenimento figlio o qualora non lo si ritenga più dovuto, dunque, è opportuno rivolgersi ad un avvocato divorzista esperto in diritto di famiglia per ottenerne la revisione o la revoca da parte del Tribunale competente.

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separazione consensualeLa separazione consensuale è la procedura che la legge prevede per consentire ai coniugi di separarsi legalmente di comune accordo.

Il presupposto della separazione consensuale, quindi, è che i coniugi trovino un accordo per regolamentare la propria vita da separati.

I coniugi devono concordare le modalità di affidamento condiviso e il mantenimento dei figli minori, l’assegnazione della casa coniugale e la divisione dei beni comuni.

La parte più delicata è dunque proprio la trattativa tra i coniugi per definire le condizioni della separazione.

Poiché gli accordi presi in questa fase saranno vincolanti per i coniugi, è importante avvalersi della consulenza e dell’assistenza di un avvocato divorzista, che consenta agli interessati di comprendere pienamente i propri diritti ed i propri doveri.

Con la separazione consensuale è inoltre possibile definire anche i rapporti patrimoniali tra i coniugi agevolandosi dell’esenzione fiscale.

Ogni trasferimento, anche immobiliare, deciso dai coniugi in sede di separazione consensuale, infatti, gode di una totale esenzione fiscale.

Ma basta l’accordo dei coniugi a dare efficacia alla separazione consensuale?

In realtà l’accordo dei coniugi è solamente il presupposto per la separazione consensuale; presupposto essenziale ma non è sufficiente.

Affinché i coniugi possano essere legalmente separati, infatti, è necessario che venga posta in essere una procedura volta ad ottenere l’omologazione della separazione consensuale da parte del Tribunale competente.

I termini dell’accordo raggiunto dovranno essere quindi riportati in un apposito ricorso che sarà depositato nell’apposita cancelleria del Tribunale dell’ultima residenza comune dei coniugi.

Il Tribunale fisserà poi un’udienza, alla quale dovranno partecipare entrambi i coniugi per confermare le condizioni di separazione già raccolte nel ricorso.

Dal giorno dell’udienza decorrerà quindi il termine semestrale, scaduto il quale i coniugi separati avranno facoltà di divorziare.

La separazione consensuale, dunque, a differenza della separazione giudiziale, consente ai coniugi di separarsi in tempi relativamente brevi, senza rovinarsi economicamente, definendo i rapporti patrimoniali e, soprattutto in presenza di figli minori, gettando le basi per un sereno rapporto.

Si tratta quindi spesso solo di scegliere la via più semplice e rapida per separarsi ed iniziare una nuova vita.

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LRiconciliazione a riconciliazione dopo la separazione non richiede l’intervento del Giudice ed è facile da attuare.

– “Avvocato, la conosce quella vecchia canzone di Gianni Nazzaro … Mi sono innamorato di mia moglie!” – mi canticchiò il cliente, che credevo di aver ricevuto per il divorzio, considerato che era ormai passato almeno un anno dalla sua separazione.

– “Dopo la separazione ci siamo parlati ed abbiamo risolto i nostri problemi. Viviamo insieme e siamo più felici di prima” – proseguì il mio cliente, concludendo con una domanda: – “Ma ora ci dobbiamo risposare?” –

– “Ovviamente no!” – risposi io, facendogli tirare un sospiro di sollievo. – “Sa, avvocato, risposarla mi sarebbe costato più della separazione!” – mi spiegò ridendo.

Sebbene non sia usuale, i coniugi separati possono riconciliarsi in qualsiasi momento facendo cessare gli effetti della separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice né, tanto meno, un nuovo matrimonio.

La riconciliazione può avvenire in due modi alternativi:

  • con una espressa dichiarazione resa all’Ufficiale di stato civile presso il Comune ove fu celebrato o trascritto il matrimonio. In tal caso la dichiarazione di riconciliazione viene annotata a margine dell’atto di matrimonio negli archivi dello stato civile;
  • con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione. In questo caso i coniugi devono ricostituire l’unione coniugale, non solo con il ripristino della convivenza, se interrotta, ma anche con la ripresa, in tutto e per tutto, del rapporto matrimoniale.

Se prima della separazione i coniugi erano in comunione dei beni, la riconciliazione comporta la ricostituzione della comunione.

Ma cosa succede se dopo la riconciliazione il matrimonio entra di nuovo in crisi ed i coniugi decidono nuovamente di separarsi?

I coniugi che decidano di separarsi dopo la riconciliazione, dovranno rivolgersi nuovamente al Tribunale proponendo una nuova domanda di separazione e, in caso di disaccordo, il Giudice dovrà riesaminare il caso, rivalutando le condizioni economiche e patrimoniali dei coniugi al momento della nuova separazione e prendendo in considerazione i fatti avvenuti dopo la riconciliazione.

Considerato che una separazione, giudiziale o consensuale che sia, può già essere pesante sotto ogni profilo, ma una doppia separazione, in conseguenza di una riconciliazione fallita, potrebbe avere ulteriori ed imprevisti risvolti, consiglierei comunque al mio cliente un colloquio approfondito per prevenire eventuali questioni spinose.

 

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Il matrimonio si fa in due e certamente si disfa in due, ma se un coniuge non vuole la separazione, l’altro la ottiene comunque?

separazione

Ogni avvocato che si occupi di diritto di famiglia, in occasione dell’inizio di una nuova separazione voluta solo da uno dei due coniugi, spesso si trova a dover sfatare quella che pare essere una convinzione molto diffusa: “Ovviamente se io non voglio la separazione, rimarremo insieme?!”, ed ogni avvocato a cui lo chiederete vi risponderà: “Ovviamente No!”.

In realtà a volte capita che la posizione del coniuge fortemente contrario alla separazione possa indurre l’altro coniuge ad accettare di “ricominciare”, ma quando l’altro coniuge è irremovibile e vuole separarsi, separazione sarà.

Da avvocato mi sono ritrovata spesso a spiegare questo concetto: la legge prevede che il vincolo matrimoniale possa tenere legati i coniugi solo sino a quando entrambi i coniugi lo vogliano.

Cosa succederà quindi se il coniuge contrario alla separazione non dovesse neppure voler discutere delle condizioni di una separazione che rifiuta di concetto?

In tal caso il coniuge che desidera la separazione non potrà far altro che rivolgersi ad un avvocato, illustrargli come vorrebbe disciplinare i rapporti con l’altro coniuge e, se ve ne sono, con i figli e far predisporre al proprio avvocato un ricorso per separazione giudiziale.

Il coniuge che si oppone alla separazione riceverà quindi una copia del ricorso con l’invito a partecipare all’udienza che il Tribunale fisserà per prendere i provvedimenti provvisori ed urgenti.

Se il coniuge che non vuole separarsi dovesse rimanere della sua idea, rifiutando anche solo di discutere le richieste avanzate dall’altro coniuge, probabilmente finirebbe per precludersi la possibilità di dire la sua sulle condizioni di una separazione che, volente o nolente, dovrà subire.

La legge, infatti, non contempla le “questioni di principio”, ma solo “questioni di diritto”: il coniuge che non prenderà posizione altro che per esprimere il proprio dissenso, si ritroverà comunque separato, perché il Tribunale non potrà far altro che dichiarare la separazione, ma si sarà precluso la possibilità di far valere i propri diritti in ordine al mantenimento ed alle modalità di visita dei figli, per esempio, aggiungendo il danno alla beffa.

Tale comportamento può avere ripercussioni particolarmente gravose se il coniuge contrario a separarsi è il coniuge ritenuto economicamente più forte, che, non difendendosi, rischia che il Tribunale assecondi tutte le richieste dell’altro coniuge, disponendo assegni di mantenimento rilevanti, modalità di visita poco consone ai propri ritmi lavorativi ed alla conservazione di un buon rapporto con i figli, pregiudicandone anche la serenità futura.

La scelta di rinunciare a far valere i propri diritti, quindi, crea i danni più gravi proprio quando il coniuge che la compie ha molto da perdere.

Se invece il coniuge che si trova a subire la decisione dell’altro dovesse quanto meno decidere di presentarsi alla prima udienza, il Giudice potrà tentare la conciliazione, anche solo allo scopo di trasformare una separazione giudiziale in una consensuale.

Il coniuge che è capace di cogliere quest’ultima opportunità, comprendendo che, indipendentemente dalla sua volontà, si ritroverà separato, riuscirà probabilmente a contrattare le modalità di gestione dei rapporti in vista di una vita da separato, evitando di compromettere anche il proprio futuro.

Naturalmente i coniugi separati possono sempre riconciliarsi e decidere di tornare a comporre una famiglia unita, senza dover ricorrere ad alcuna formalità.