Trasferta o trasferimento?
Mi chiama il titolare di un’azienda cliente: “Avvocato, pensi lei, volevo inviare un mio dipendente in missione su un cantiere. Ho scritto sulla lettera “trasferimento” anziché “trasferta” e lui che fa…? Anziché andare dove l’avevo mandato, si presenta al vecchio cantiere, si fa mandare via e impugna il tutto dicendo che l’avevo licenziato verbalmente e che siccome era un trasferimento non c’erano i requisiti legali… Non so cosa gli è preso, era persino un trasfertista, e ora mi ritrovo con una causa in Tribunale!”
Dopo aver fatto un po’ di ordine nel racconto dei fatti, rilevo che in effetti nella lettera scritta dall’azienda era stata utilizzata la parola “trasferimento” anziché “trasferta”, ma inequivocabilmente l’intenzione era “solo” quella di una “trasferta”.
Per capire meglio, trasferta e trasferimento si distinguono perché la prima, per quanto lunga sia, ha per sua natura una durata “temporanea” alla scadenza della quale il lavoratore è destinato a tornare alla base. La seconda invece comporta una “definitiva” modifica della sede di lavoro: nelle intenzioni quindi il lavoratore non dovrà fare più ritorno alla sede originaria.
La conseguenza è solo per il trasferimento la legge richiede che vi siano precise ragioni tecniche organizzative e produttive, mentre per la trasferta, data la temporaneità, questi requisiti non sono richiesti.
Nel caso della mia cliente, per i dati che avevo raccolto, era evidente si trattasse di una missione temporanea.
Tra l’altro il lavoratore era stato assunto proprio come “trasfertista” e quindi non solo non era la prima volta che veniva inviato presso i cantieri della clientela per poi ritornare, ma a maggior ragione non vi era necessità di motivazioni alla base della trasferta, essendo l’oggetto stesso della sua mansione.
Stava di fatto che nell’ultimo periodo i rapporti si erano incrinati e questo era stato un buon pretesto per creare un caso.
Quando poi il lavoratore, rifiutandosi di andare in trasferta, si era recato al precedente cantiere e gli era stato impedito l’accesso con invito ad andare a quello nuovo, nulla di più semplice che contestare anche che era stato licenziato verbalmente (quando invece il datore di lavoro l’aveva solo invitato a recarsi alla sede corretta) e così interrompere il rapporto cercando di addossarne la colpa dell’azienda.
Nonostante la sostanziale evidenza dei fatti, la causa che il lavoratore aveva promosso in Tribunale costringeva comunque l’azienda a munirsi di un legale e a partecipare al giudizio per spiegare come erano andati davvero i fatti.
Alla fine i fatti furono poi effettivamente accertati per come spiegati dall’azienda la quale ebbe quindi la sua ragione. Ciò che però non impedì al Giudice di compensare le spese legali, cioè di disporre che ciascuna parte si pagasse le proprie, che quindi la cliente, sia pure di buon grado per la soddisfazione della vittoria, dovette suo malgrado accollarsi.
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